Robin Rizzini: il design è sottrazione

Classe 1973, genovese di nascita, educazione anglo-italiana, milanese di adozione, Robin Rizzini è un designer che appartiene alla schiera degli indipendenti, quelli che trovano nella solitudine produttiva l’essenziale motore per la propria attività

Etan by Twils, Design Robin Rizzini, Photo © Max Rommel
Etan by Twils, Design Robin Rizzini, Photo © Max Rommel

Un cittadino del mondo innamorato delle sue origini, un modo tutto personale per manifestare il suo immaginario, un designer istintivo che non conosce la banalità e rifugge dalle ripetizioni, un’onestà intellettuale che si rivela strada facendo e sottovoce: questo è Robin Rizzini, un sognatore serio con un passaggio diretto dal sogno al foglio transitando dalla matita.

Toa by Pedrali, Design Robin Rizzini
Toa by Pedrali, Design Robin Rizzini

Genova, la mamma, Citterio, Metrica (lo studio costruito insieme a Bruno Fattorini), il Compasso d’Oro. Fino alla scelta di essere indipendente. Sono queste le macro-tappe della tua storia?
1973, Genova, mamma inglese, donna anglosassone al 100% e di ampie vedute: ecco, a parte l’ovvio valore della lingua, la sua influenza si è fatta sentire e mi è tornata utile nel tempo. Non penso di essere ideologico, non credo di avere pregiudizi, tendo a fidarmi, ho preso e prendo facciate, ma ormai me ne sono fatto una ragione e ho fatto pace con me stesso.
Lavorare con Antonio Citterio è stata sicuramente l’esperienza più importante, mi ha fatto capire che questo è un mestiere serio, non come poteva sembrare quando frequentavo le scuole di design, “una cosa frivola” legata al gesto e all’estro. È ricco invece di dinamiche molto complesse, ti mette in confronto con le aziende, con i processi industriali e tante altre cose che nulla hanno a che fare con la creatività. Un periodo molto duro dove ho imparato molto.

Robin Rizzini
Robin Rizzini

Hai sempre avuto la vocazione del designer?
Assolutamente sì e già dal liceo, poi paradossalmente le prime esperienze sono state di natura architettonica (e io non sono architetto), ma avevo bisogno di lavorare e di sostenermi: e proprio prima di andare da Antonio Citterio ho avuto un “passaggio” con Massimo Roj e Progetto CMR dove dovevo occuparmi di prodotto e dove alla fine ho lavorato sullo space planning. È stato il mio primo contatto con il mondo degli uffici, sia per l’arredo che per gli spazi, mi è piaciuto e mi sono divertito. Ho scoperto un mondo che non conoscevo, sempre in movimento, a Milano in quel periodo (siamo alla fine degli anni ’90) tutte le grandi aziende riprogettavano i lori uffici e c’era un gran fermento. E questa esperienza sull’ufficio ha facilitato il mio passaggio da Antonio Citterio dove ho però anche lavorato tanto per Arclinea e tantissimo per Vitra.

Harold by Twils, Design Robin Rizzini
Harold by Twils, Design Robin Rizzini

Metrica era una realtà atipica, sei d’accordo?
Metrica è stato un esperimento coraggioso, lo studio era multidisciplinare un po’ all’inglese, dopo un po’ mi sono reso conto che non era la mia dimensione, facevo fatica a gestirlo anche dal punto di vista personale e ho tentato di smontarlo. Il mio problema in Metrica, nel tempo, è stato quello di perdere gradualmente quello che io ritenevo essere il bello del mio mestiere: se diventi manager ti stacchi dalle aziende, ti occupi più di gestione. Non era la mia strada, facevo fatica e alla fine ho preferito cambiare, di fatto, ricominciare da capo.

Toa Office by Pedrali, Design Robin Rizzini, Photo © Andrea Garuti
Toa Office by Pedrali, Design Robin Rizzini, Photo © Andrea Garuti

E compare Pedrali all’orizzonte…
Esatto, Pedrali nasce da un rapporto inconcludente di oltre dieci anni, poi un giorno mi viene in mente un tavolo che disegno su un foglio, lo presento con semplicità a Giuseppe Pedrali e gli è piaciuto subito: il tavolo ha esordito nel periodo più difficile del Covid, ma Pedrali è stata una potenza organizzando video e mettendosi in gioco al massimo delle possibilità. Loro sono molto competenti, hanno guadagnato competenze ogni anno, facevano basi di tavoli per i bar e ora è sotto gli occhi di tutti quello che sono diventati.

25 by Desalto, Design Robin Rizzini
25 by Desalto, Design Robin Rizzini

Nel 2014 vinci un Compasso d’Oro.
A quei tempi Desalto era una bellissima azienda, il rapporto con Walter Orsenigo era speciale, lui molto chiuso e riservato ma molto cosciente di quello che fosse bello per l’azienda.
La genesi di 25 parte da lontano, con un approfondito studio sui materiali: volevamo approcciare l’oggetto-tavolo in modo diverso anche dal punto di vista dell’ingegnerizzazione, partendo da un telaio particolare. A un certo punto del percorso abbiamo coinvolto Orsenigo che è si è subito entusiasmato e 25 (si chiama così perché lo spessore è 25mm) è stato inserito nelle collezioni di Desalto e ha vinto il Compasso d’Oro. 25 è forse l’ultimo caso di tavolo nato con l’imprimatur della leggerezza, da lì in avanti il mercato ha proposto prodotti più pesanti, materici e con l’ingresso di altri materiali e decori.

Il Compasso d’Oro ha cambiato qualcosa nel tuo lavoro?
No. Lavoro sempre sotto traccia, è il mio carattere. A suo tempo fui anche bollato di snobismo, ma nutro una punta di sana invidia per i miei colleghi che hanno la forza di promuovere sé stessi. Io questo tipo di energia non ce l’ho. Anche per questo motivo lavoro da solo.

25 by Desalto, Design Robin Rizzini
25 by Desalto, Design Robin Rizzini

La leggerezza è una caratteristica che appartiene al tuo stile progettuale?
Innanzitutto è un istinto e poi c’è un mio principio etico che si fonda sul “non utilizzare più di quello che serve”: ho sempre ammirato e amo i progettisti essenziali, quelli che hanno realizzato oggetti e ambienti belli senza forzature legate all’abbondanza. Sono infastidito da quegli oggetti che occupano troppo spazio, un po’ come me che sono riservato e cerco di occupare meno spazio possibile.

Sei riuscito ad alleggerire anche Twils!
Twils è un progetto il cui arrivo mi ha sorpreso, proprio non me lo aspettavo: Matteo Ragni mi ha cercato, siamo partiti con il divano Etan e adesso è arrivato Harold (mio nonno), li abbiamo presentati al Salone. Ero un po’ pensieroso perché loro sono noti per i letti, mi hanno sorpreso per la loro capacità tecnica e la reattività. Matteo poi è stato per me una sicurezza.

I sogni son desideri?
Ne ho due: il primo è progettare delle sedute, campo da cui mi sono sempre tenuto a debita distanza per mia presunta incompetenza, vorrei trovare però un’idea un po’ paradigmatica.
E poi vorrei progettare una piccola casa, possibilmente in montagna, con una vista mozzafiato e completamente disegnata. Trovo affascinante questa possibilità.