Intervista a Claudio Feltrin

L’apertura a Tokyo a novembre 2016 in un mercato ora strategico, conferma la propensione esterofila da sempre dimostrata da Arper…
Abbiamo iniziato il nostro percorso aziendale guardando all’estero perché abbiamo intravisto maggiori spazi e oppor­tunità che in Italia, e tuttora siamo molto sbilanciati con il 94% del fatturato internazionale rispetto al 6% in Italia, che comunque resta un mercato importante ancora da svilup­pare, dove stiamo ottenendo grandi soddisfazioni.
Lavorare sull’esportazione è stata un’intuizione positiva, oltre che una scuola fondamentale per sviluppare solide basi di business. Per estero intendo soprattutto Europa, mercato principale e consolidato per un complessivo 75%, a seguire Nord Ame­rica, con una filiale con showroom a New York, uno show­room a Chicago e una sede logistica e produttiva in North Carolina; e più recentemente Asia, dove abbiamo appena aperto una sede commerciale a Tokyo con showroom di as­sistenza a studi di architettura e interior designer.

Cosa intende con ‘soft’ quando definisce l’approccio di Arper nel settore contract?

In un mercato ormai molto parcellizzato, il nostro è un contract basato su un ampio catalogo con linee studiate appositamente per garantire una buona offerta di base, sebbene siamo in grado di personalizzare i prodotti ed esaudire le richieste dei progettisti.

L’evoluzione nel modo di lavorare comporta anche la trasformazione dei luoghi e degli strumenti per il lavoro. Svantaggio oppure opportunità per il settore?

Cambia il modo di lavorare e cambiano anche gli ambien­ti, come la tradizionale postazione di lavoro, oggi sempre meno tradizionale. Grazie alla tecnologia ora si potrebbe lavorare dovunque, anche in contesti non precedente­mente deputati al lavoro, come hotel e aeroporti. I luoghi e gli strumenti si devono adattare a questa trasforma­zione che per il settore è sicuramente un’opportunità, perché si hanno più possibilità di essere creativi, di pro­porre la propria interpretazione dello scenario lavorati­vo. Quello che diventa più difficile, forse, è individuare le necessità puntuali e reali degli utenti.

In un contesto in evoluzione, qual è l’innovazione, o le innovazioni, che meglio vi rappresenta?

Nella nostra continua volontà di coniugare estetica e fun­zionalità negli ultimi due anni abbiamo puntato su due prodotti in particolare, studiati in collaborazione con lo studio Lievore Altherr Molina: i pannelli Parentesit, an­che se non appartengono al nostro core business, sono nati da un’esigenza concreta del mercato per trovare una soluzione al problema della fonoassorbenza sui luoghi di lavoro.
Nella creazione di ambienti cercavamo comfort vi­sivo e resa estetica. Il sistema è la nostra interpretazione dei pannelli acustici, quali elementi decorativi e strumenti funzionali in cui concentrare oltre alla fonoassorbenza, anche la possibilità di ascoltare musica in bluetooth o integrare illuminazione, senza far emergere la tecnologia, in modo che non diventi protagonista, ma sia al servizio dell’ambiente di lavoro.

Più vicino al nostro core business, invece, la seduta ope­rativa Kinesit. A partire dalla penalizzazione data dalle normative che regolano la produzione di sedie operative, a cui è impossibile derogare, abbiamo cercato anche in questo caso di nascondere i meccanismi che sono stati incorporati all’interno della seduta e dello schienale per ottenere una migliore resa estetica.
Inoltre, si possono combinare tre tipologie di tessuti con tre colori diversi per aumentare la possibilità di personalizzazione. L’uso di queste sedute è probabilmente in diminuzione, ma diven­tano più sofisticate. Il riscontro sul mercato è stato positi­vo e pensiamo sia la via giusta per soddisfare le esigenze del settore e dei progettisti.

Anche l’esperienza del Padiglione Italia all’ultima Biennale di Venezia e l’impegno per Emergency si è rivelata una via giusta?

Penso che un’azienda abbia sì l’obiettivo di creare profitto entro le regole, ma ha anche un compito più elevato come entità operante all’interno della società. Senza diventare un ente filantropico, in qualche modo dobbiamo e possia­mo contribuire a migliorare il mondo che ci circonda, in uno scambio continuo all’interno di un sistema sociale.