Ci raccontate Lamorisse, il vostro progetto più recente per Pedrali?
È una sedia con o senza braccioli e telaio in alluminio, materiale scelto per la sua leggerezza e per la resistenza agli agenti atmosferici: questo prodotto outdoor può quindi essere utilizzato sia su barche sia situazioni bordo mare, per esempio i bar e i bistrot che sono in tutta l’area mediterranea. Abbiamo cercato di renderla più confortevole possibile: la seduta è sorretta da cinghie elastiche tese sul telaio, e tutta la cuscinatura è idrorepellente grazie a una doppia fodera, e questo ci ha dato modo di usare delle gomme molto confortevoli. La sedia, poi, è facilmente scomponibile: i telai si possono impilare e le cuscinature, che diventano piatte, si possono accatastare.

Sul lato estetico cosa vi ha guidato?
Come spesso ci capita, andiamo a scavare nella nostra memoria di giovani bambini italiani che vivono l’estate al mare o in campagna e si ricordano le sedie – come nel caso di altri nostri progetti degli anni passati – che utilizzavano le nostre nonne. Ovviamente con altre tecnologie e altri materiali. Qui c’è la memoria di un progetto illustre, la serie LC2 di Le Corbusier con la serie LC2, in cui una struttura portante in tubolare contiene e quasi costringe l’imbottito; un effetto che dà un senso anche visivo di comfort. Usare l’alluminio ci ha permesso di avere dei tubolari dalle dimensioni importanti, che danno un senso di materia, di solidità. Per l’azienda è stata una sfida, perché questa è la loro prima sedia in alluminio saldato. Una sfida che è stata accolta con entusiasmo.

Il nome lo avete trovato voi?
Sì, come facciamo spesso. Questo lo abbiamo scelto pensando al film Le ballon rouge di Albert Lamorisse in cui l’immagine caratterizzante è un bambino con dei palloncini in mano che sembra levitare. L’idea era quella in cui questa struttura, molto leggera, venisse trasportata dal cuscino per ha questo aspetto “gonfiato”. Da qui è nato il parallelismo.

Presentate altri progetti quest’anno per Pedrali?
Ci sono due ampliamenti di collezione. Un divanetto lounge della famiglia Nolita, che è uno dei loro best seller, dalla forma generosa. Poi lo sgabello della collezione Panarea, una sua evoluzione naturale.


Prima avete parlato di lavorazioni, in Panarea ce n’è una molto artigianale…
Anche questa è stata una sfida: per un’azienda così votata all’industrial design, una lavorazione così, che occupa tempo nella produzione, era complicata da introdurre. Il progetto è nato frequentando il laboratorio di un artigiano, quello con cui abbiamo elaborato la collezione Tribeca. Insieme a lui abbiamo studiato un intreccio che non va a gravare molto in termini di ore sulla lavorazione però riesce a dare un bell’impatto estetico. L’abbiamo ridotto il più possibile: il triangolo era partito più fitto, poi in dialogo con l’azienda si è arrivati a ottenere questo intreccio trasparente ma anche molto caratterizzante.

Qual è il vostro rapporto con il “fatto a mano”?
Siamo sempre stati fortemente connessi con l’artigianato e con gli artigiani, c’è un tessuto di rapporti di amicizia con molti di loro. Passiamo molto tempo presso le loro botteghe, la nostra ricerca passa anche dal fare, dal provare. La parola “industriale” fa pensare a qualcosa di fatto a macchina. In realtà anche qualcosa di fatto a mano può essere industriale, semplicemente ripetuto in modo più o meno uguale. Noi non progettiamo solo un prodotto, pensiamo al processo che gli sta dietro. E per questo è indispensabile parlare con chi fa. Nel disegno industriale il processo è il protagonista.