Calvi Brambilla: quando lo storytelling diventa scenografia

Nel vostro concept di allestimento, quale relazione c’è tra contenitore e contenuto?
PB:
Il contenitore non deve prevalere sul contenuto, questione che chi progetta musei sa bene; normalmente gli artisti e i curatori preferiscono avere una scatola bianca dove esporre le opere. Per noi, che ci occupiamo di exhibition design, la scatola così come la disposizione degli oggetti al suo interno devono essere comunicativi. Per questo ci piace contaminare, lasciarci prendere da suggestioni che provengono dal mondo dell’arte, del cinema, del teatro e portarle all’interno delle esposizioni. Ultimamente ha funzionato molto anche l’idea di realizzare stand più architettonici, come quello progettato per Flos a Euroluce lo scorso Aprile: dei sette che abbiamo realizzato al Salone del Mobile era quello più di impatto, non solo per dimensioni, ma anche perché si presentava come un’architettura in cui gli oggetti erano presentati come opere d’arte.

Come è cambiato l’approccio espositivo?
FC:
Si cerca immediatezza. Lo scorso anno ci hanno fatto i complimenti per lo stand progettato per Pedrali a Orgatec 2016 (ndr. vincitore del German Design Award 2018), riconoscendoci che era un allestimento molto fotogenico per Instagram.
PB: Nella contemporaneità, causa i social network, siamo molto abituati a una lettura estremamente veloce e questo è diventato rilevante anche nel contesto della fiera dove nessuno ha il tempo di lettura. Ciò può essere un problema quando occorre comunicare la qualità del prodotto o i dettagli, che richiedono chiaramente un tempo di lettura maggiore. Per gli interni è differente, ma nell’ambito degli allestimenti facciamo di fatto un lavoro di marketing, molto vicino a quello di un’agenzia che studia una campagna. Siamo alla regia di un evento temporaneo. E per fare ciò occorre avere competenze di diversa natura: architettura, design, comunicazione, capacità nel maneggiare i colori.

L’uso del colore è una costante della vostra progettualità…
PB:
Ci piace e non ne abbiamo paura, nonostante l’esistenza del luogo comune per cui l’assenza di colore porta a qualcosa di elegante o raffinato o particolarmente intellettuale. In realtà è un momento favorevole al colore e per questo ci troviamo ancor più a nostro agio. Ora ci stiamo concentrando soprattutto sull’aspetto della matericità, perché il colore funziona bene sul digitale e sullo stampato, ma spesso ci chiedono ‘perché una persona deve andare a una fiera’: la risposta è perché alle persone piace andare fisicamente in uno spazio. Non è la stessa cosa vederla online: esserci, viverlo, è tutt’altro. E a questo punto la matericità, la tattilità, diventa fondamentale.

Per questo ‘lavoro di marketing’ da dove iniziate?
FC:
È importante capire come lavora un’azienda, cosa fa, come, perché; entrare nel dettaglio delle lavorazioni. Le persone, prima ancora di entrare negli showroom, dovrebbero andare nelle fabbriche per comprendere il know-how delle aziende, come esso condiziona il prezzo. Il saper fare italiano è davvero fatto di esperienza lunga anni, di sperimentazione, di testardaggine di poche persone che hanno inventato il Made in Italy. Questo va capito e per noi è l’aspetto fondamentale per comunicare l’azienda.
PB: Io e Fabio siamo persone che si annoiano facilmente abbiamo bisogno di essere iperstimolati; ci piace quindi lavorare con aziende che fanno cose interessanti e un po’ folli. Esemplare è Barovier&Toso che realizza prodotti di altissimo artigianato. Noi stessi abbiamo dovuto imparare e farci una cultura per capire dove stava la qualità.

La collaborazione con Antoniolupi segna per voi l’ingresso nel settore bagno?
PB:
Sì, esatto. Ci stiamo occupando del restyling dello showroom di Milano, 400mq di superficie. Antoniolupi è un’azienda molto interessante con cui si è instaurato subito un feeling; è guidata dai 4 fratelli e Andrea, Art Director, ci piace anche per il suo carattere un po’ folle. L’azienda in realtà va molto bene paradossalmente non aveva bisogno di noi ma ha capito che doveva guardare avanti e superare lo stato in cui si trovava. L’intelligenza di capire di dover superare se stessi è una cosa che hanno solo gli imprenditori più bravi.

Cosa vi affascina di un’azienda, lo stimolo che vi spinge a collaborare con essa?
PB:
Io e Fabio siamo molto diversi su quasi tutto, ma abbiamo dei punti in comune; uno di questi è che siamo piuttosto entusiasti del modo di fare e pensare il design italiano, anche quello storico. Questa è la cosa che ci affascina di più e ci piacciono le aziende che hanno ancora questa attitudine. Per questo motivo la capacità di visione che deve avere l’imprenditore insieme al designer è di fare ciò che ancora non c’è. Non essere follower ma trandsetter. E molte aziende italiane lo sanno ancora fare.
FC: Non dobbiamo progettare a tutti i costi. Ci interessa maggiormente un ragionamento più ampio su cosa manca nella collezione di un’azienda; allora quell’aspetto, quel prodotto diventa il tema di progetto.
PB: È il caso del tavolo Ettore, disegnato da noi per Pianca (ndr. Vincitore del Good Design Award 2017) che ci ha chiamato perché si è resa conto che aveva bisogno di introdurre qualcosa di differente; è nato questo prodotto caratterizzato dalla gamba centrale che sembra sospesa sulla base specchiante. C’è di fondo un tocco di sottile ironia che ci piace sempre aggiungere.

C’è ironia anche nel progetto delle Zanotta: Stories?
PB:
Con Zanotta abbiamo fatto un lunghissimo lavoro a quattro mani di posizionamento del brand, cercando di identificare l’identità dell’azienda, inventando le Stories – sei modi di abitare contemporanei di sei personaggi distinti – per rendere esplicito chi è il cliente tipo di Zanotta: un cliente apparentemente non convenzionale, in realtà molto presente.
FC: Si tratta di sei figure portate all’eccesso perché era necessario avere personalità forti per definire qualcosa di astratto. Ma in generale cerchiamo di sdrammatizzare molto, perché crediamo che l’abitare sia fatto da molto di più rispetto al possedere un oggetto, posizionarlo o scegliere un colore che stia bene con un altro. Non ci interessa la decorazione fine a se stessa, ci interessano i racconti di vita vera, dove si sdrammatizza, per l’appunto, e si trovano soluzioni anche con ironia.