Visitando il sito del tuo studio ci si imbatte con i Design Principles, la tua bibbia?
I 20 Design Principles sono il mio Manifesto, il risultato degli ultimi due anni di studio e lavoro, una guida del mio operare e cardini dell’attività del mio studio. Il Manifesto racchiude temi personali e altri più generici, ma si declina anche sui prodotti che ho realizzato. Non corrisponde però a uno stile personale (stile è una parola che mi spaventa), non ambisco a essere riconoscibile dall’estetica dei miei prodotti.
Parliamo di briefing, spesso è generico, a volte non c’è, raramente è chiaro e definito. Ti riconosci in queste definizioni?
Assolutamente! Spesso le indicazioni sono generiche, altre volte non ci sono proprio. Altrettanto spesso ho trovato aziende – soprattutto quelle più grandi perché troppo dipendenti dei numeri – che si affidano al giudizio dei commerciali i quali possono affossare un prodotto prima ancora che nasca. Il meccanismo che si crea è perverso, va esattamente al contrario dell’approccio che si dovrebbe avere con la progettazione: i commerciali, in generale, ti dicono quello che vorrebbero perché l’hanno già visto da altre parti. L’appiattimento è inevitabile. Un commerciale ha una provvigione che va dal 7 al 10%, un designer dal 3 al 5%: c’è qualche cosa che non funziona nel sistema e non è un problema meramente economico, ma di scala di valori. Le icone dell’Italian Design sono nate da intuizioni “di pancia” e non da forecast di possibili fatturati.
Con Ethimo non è andata così, vero? Come è nata Esedra?
Tre anni fa a Parigi ho incontrato Giampaolo Migliaccio che mi chiese di disegnare una collezione per loro; io forse non ero pronto, non conoscevo Ethimo e non avevo mai disegnato prodotti outdoor e alla fine non se ne fece nulla. L’anno scorso è arrivata poi la seconda chiamata, evidentemente ero più “disponibile” all’ascolto, e l’incontro fu decisamente positivo. Il briefing fu preciso: un prodotto che avesse la fibra sintetica come elemento estetico principale e che si posizionasse per l’hotellerie di un certo livello. Il risultato è una collezione completa che copre tutte le esigenze in termini di outdoor per il mondo dell’ospitalità alberghiera. Abbiamo progettato la collezione non partendo dall’estetica, ma concentrandoci sulla struttura e scegliendo una serie di materiali: base in alluminio con doghe in legno, lo schienale è in fibra intrecciata e poi c’è l’imbottito. I tre elementi, con le loro varie declinazioni di pattern e colori, offrono all’architetto la possibilità di customizzare. E’ un approccio che ho conosciuto da vicino in Scandinavia dove il soft contract ha come interlocutore quasi unico l’architetto. Esedra contiene anche delle soluzioni invisibili, che migliorano l’aspetto logistico dell’azienda che la produce: il prodotto è scomponibile e facilmente stoccabile, quindi meno ingombri e conseguente risparmio di spazio e di spese di spedizione.
Com’è il rapporto di Luca Nichetto con il colore?
Profondo. Personalmente collaboro da tempo con NCS, Natural Color System, che è un protocollo svedese che cataloga il colore e guida gli abbinamenti. Da questo è nata la collaborazione con Massimo Gardone, fotografo e amico di lunga data, che stava lavorando con il designer più bravo del mondo che è la natura. Da questa esperienza è nata una palette di colori personale con dietro delle storie che hanno delle loro oggettività.
Progetti in arrivo al Salone del Mobile?
Oltre a Ethimo, tante cose: da Arflex a Fornasarig e poi Casamania, &tradition, Verreum e Small & Object.
Molti dei concept che ci hai raccontato trattano il tema dell’ospitalità, alcuni la sfiorano altri per quel mondo nascono: possiamo attenderci il primo hotel firmato da Luca Nichetto?
È uno dei miei sogni nel cassetto, forse tra non molto sarà un sogno che potrebbe trasformarsi in realtà. L’interior dedicato non al privato, ma al pubblico – hotel, ristoranti o showroom – è un pianeta dove mi piacerebbe atterrare.