Paradossi percettivi

Fino al 4 ottobre, è ancora possibile visitare la mostra di Leandro Erlich a Palazzo Reale, e attraversare grandi installazioni che fanno perdere il senso della realtà e della percezione dello spazio

Leandro Erlich, Shikumen (2004)

Palazzi in cui ci si arrampica virtualmente, case sradicate e sospese in aria, ascensori che non portano da nessuna parte, scale mobili aggrovigliate come fossero fili di un gomitolo, sculture spiazzanti e surreali, video che sovvertono la normalità. Sono tutti elementi che ci raccontano qualcosa di ordinario in un contesto straordinario, dove tutto è diverso da quello che sembra, dove si perde il senso della realtà e la percezione dello spazio. Si tratta della mostra “Leandro Erlich. Oltre la soglia”, allestita a Palazzo reale la scorsa primavera e curata da Francesco Stocchi che può essere una buona occasione per allungare l’effetto vacanza, anche se si è già tornati a Milano. La mostra, che ha già raggiunto milioni di visitatori nel mondo – 600.000 a Tokyo e 300.000 a Buenos Aires – è ancora visitabile a Milano fino al 4 ottobre. L’edizione milanese dà al pubblico la possibilità di conoscere il lavoro di Erlich attraverso le sue opere più note ed iconiche, per la prima volta riunite in una sola sede con l’intento di sistematizzare la produzione dell’artista.

Leandro Erlich, Infinite staircase (2005)

Artista argentino, nato a Buenos Aires nel 1973, Erlich crea grandi installazioni con cui il pubblico si relaziona e interagisce, diventando esso stesso l’opera d’arte. Il suo lavoro esplora le basi percettive della realtà e la nostra capacità di interrogare queste stesse basi attraverso un quadro visivo. L’architettura del quotidiano è un tema ricorrente nell’arte di Erlich, che mira a creare un dialogo tra ciò che conosciamo come dato certo e ciò che percepiamo nella visione, così come cerca di colmare la distanza tra lo spazio del museo e l’esperienza quotidiana. Ogni opera di Leandro Erlich apre una finestra sul mondo sensibile, ma invece di ingannare l’occhio svela gli inganni visivi a cui può essere soggetta la mente, aprendo nuovi orizzonti e interrogativi. Un’opera di Erlich suscita, come prima reazione, un senso di familiarità rispetto al quotidiano, per poi insinuare un certo dubbio. Osservando con attenzione l’opera, lo sguardo dello spettatore inizia a dubitare di ciò che percepisce trovandosi di fronte a un fenomeno inspiegabile.

«Le creazioni di Erlich», spiega il curatore della mostra Francesco Stocchi, «sono strutture architettoniche che funzionano come macchine ottiche che mettono in discussione il dato sensibile del mondo. Le 19 opere in mostra dimostrano che, liberandosi dalle nozioni acquisite con l’esperienza, ognuno di noi può sperimentare una propria dimensione, una nuova visione non offuscata: l’avvento di un nuovo tipo di mondo. Ogni lavoro è un evento che riguarda l’osservazione di piccoli fenomeni banali che, trasferiti nello spazio museale, acquistano una nuova condizione. L’opera stimola nuovi comportamenti collettivi e trasforma le abitudini automatiche in momenti di rivelazione, disagio e riorganizzazione.»

Leandro Erlich, Changing rooms (2008)

Il percorso espositivo inizia a sorprendere già nel Cortile di Palazzo Reale, dove è allestita la monumentale installazione site-specific Bâtiment, creata nel 2004 per la Nuit Blanche di Parigi. Da allora è stata presentata in tutto il mondo, adattandosi alle caratteristiche dell’architettura locale. Il meccanismo espositivo è tuttavia sempre lo stesso: appoggiata orizzontalmente a terra è posizionata la riproduzione della facciata di un edificio, con balconi, nicchie, fregi, tettoie. I visitatori si “appendono” virtualmente alle decorazioni e un grande specchio inclinato a 45 gradi riflette l’immagine a terra su un piano verticale, dando l’illusione di una facciata reale e la sensazione che la legge di gravità non esista più.

Staircase (2005) sembra una scala a chiocciola a grandezza naturale, compresa la tromba delle scale, e poi ruotata di 90 gradi. Sebbene lo spettatore stia guardando un’opera d’arte in verticale dal pavimento, viene colto dall’illusione ottica di sbirciare in una tromba delle scale rivolta verso il basso. Le altre persone sulle scale possono essere viste guardando di lato, non verso l’alto, il che rafforza ulteriormente un’esperienza dai tratti inquietanti. Con quest’opera, che elimina il ruolo di una scala per far salire e scendere le persone, Erlich libera la struttura architettonica dalla sua funzione originale, trasformandola attraverso la sua sovversione percettiva, in un’opera d’arte autonoma.

Leandro Erlich, Hair salon (2008

Changing (2008). Quando il pubblico entra nel camerino elegantemente arredato, trova gli specchi figura intera installati su tre lati. Ma questi specchi si estendono in lontananza creando spazio, piuttosto che mostrare il nostro riflesso. Entrate nello spogliatoio e scoprire che è collegato a un altro spogliatoio in fondo che magari riflette la vostra immagine attraverso altri specchi. Si potrebbe persino incontrare uno sconosciuto che appare improvvisamente nello specchio di uno spogliatoio vicino. Attraverso questo gioco di illusioni e vuoti, i camerini proliferano come un labirinto dai confini indefiniti. La confusione e la paura di perdersi si dissolvono a favore della meraviglia dell’incontro. Proprio come Alice che si perde nello specchio e non è più in grado di distinguere tra questo e quell’altro lato dello specchio, tra sé e l’altro, noi ci perdiamo in un labirinto intrecciato di non uno, ma ben 30 spogliatoi.

Hair salon (2017), sebbene sembri una ricostruzione di un salone da parrucchiere con specchi e sedie ordinate, presenta delle sorprese. Alcuni specchi non mostrano i riflessi così come siamo abituati: non vediamo noi stessi, ma piuttosto persone che non sono nemmeno presenti nella stanza, che ci guardano disorientati quanto noi. In effetti, dall’altra parte di quello che pensiamo sia lo specchio c’è uno spazio completamente diverso. Erlich fa leva sulla nostra aspettativa che lo specchio mostri il nostro volto, mentre in realtà lo “specchio” è solo una cornice che separa un altro spazio vuoto, in un gioco percettivo di pieni e vuoti comune all’artista.

Leandro Erlich, The cloud (2021)

The Cloud (2018): una delle tendenze dell’umanità è quella di cercare di aggiungere ordine e forma a ciò che non c’è, come nel caso delle stelle disposte a caso e organizzate in costellazioni. Disorientamento e smarrimento percettivo sono caratteristiche costanti dell’opera di Erlich, che si “diverte” a creare immagini che scatenano nell’osservatore sensazioni illusorie. Quasi a voler catturare l’impalpabile, Erlich presenta diverse nuvole che fluttuanti in imponenti vetrine come in un gabinetto di curiosità. Allo stesso modo, fin dall’antichità abbiamo immaginato varie forme nelle nuvole, che cambiano continuamente, intraprendendo attraverso le loro continue mutazioni un viaggio onirico. Una volta fuori, viene naturale alzare lo sguardo e osservare il cielo che, secondo l’artista, con le sue luci, forme e colori condiziona la percezione che ognuno di noi ha della propria città.

Leandro Erlich, Global Express. New York / Paris / Tokyo (2011)

In Global Express (2011), i paesaggi urbani scorrono oltre quello che sembra essere il finestrino di una metropolitana o di un treno sopraelevato. Mentre osserviamo le immagini, possiamo percepire la cadenza incalzante del viaggio, osservando una città iconica (Tokyo) trasformarsi senza soluzione di continuità in un’altra (New York) e poi in un’altra ancora (Parigi). Global Express rivela i monumenti e i segni architettonici che identifichiamo con ogni città. Intrecciati tra loro come un evento simultaneo, sperimentiamo ciò che la tecnologia ci offre ogni giorno: la capacità di attraversare distanze impossibili in millisecondi. Architetto dell’incerto, Leandro Erlich crea spazi dai confini fluidi e instabili. Il video ci lascia la sensazione di aver fatto un viaggio unico, in cui più metropoli si fondono in un unico reel globale.

Leandro Erlich, Rain (1999)

Rain (1999) fu realizzata per la prima volta in occasione della Biennale Whitney del 2000 a New York e sfida ingegnosamente la convenzione accettata secondo cui solo all’aperto può piovere in modo torrenziale. L’opera consiste in un falso esterno sotto forma di una messinscena realizzata con un muro di mattoni e finestre, contro cui le gocce di pioggia ingegnerizzate si disperdono con forza, mentre i lampi illuminano il cielo. Oltre al disorientamento, caratteristico dell’opera di Erlich, di vedere uno spazio esterno dall’interno, l’opera genera strane e inquietanti sensazioni di malinconia e spavento radicate nella condizione di una pioggia che non conosce soluzioni di continuità.