Cresce la comunità creativa con Stephen Burks

Contemporaries è il nuovo studio newyorkese fondato dall’industrial designer Stephen Burks e dall’urban planner Malika Leiper

Inaugurato nel quartiere di Dumbo, Contemporaries è il nuovo studio/progetto/vetrina volto alla creazione di una comunità creativa per mezzo del design e dei campi che vi gravitano attorno. Sin dalla sua esposizione inaugurale, “A Radical Window”, che metteva a confronto le lotte politiche di oggigiorno attraverso l’arte e il design degli ultimi 60 anni, Contemporaries nasce con la volontà di stabilire un dialogo sul perché il design sia più che mai fondamentale. «Considerando il punto in cui si trova la società oggi, avevamo il forte desiderio di lavorare in modo più partecipativo e aperto al pubblico. Contemporaries è il luogo in cui ci dirigiamo per sentirci connessi alla cultura, per fare esperienza della bellezza e creare arte in compagnia della nostra comunità». Attraverso progetti a cadenza mensile all’interno di uno spazio ampio 400mq, Stephen Burks e Malika Leiper credono fortemente nel potere della cultura “di strada”, per respirare una nuova vita all’interno dei nostri spazi urbani in un modello post-Covid.

Come è nata l’idea di aprire uno spazio come Contemporaries, dedicato all’immaginazione?
Stephen
: Quando abbiamo preso in affitto lo spazio, lo scorso febbraio, abbiamo avuto solo il tempo di pitturare le pareti e aggiungere strisce di colore alle vetrine, dopo di che scoppiò il Covid e la città entrò in lockdown. Per quasi cinque mesi lo studio rimase vuoto tanto che iniziammo a pensare a come riutilizzarlo. In un primo tempo, immaginavamo questa location come lo studio per Stephen Burks Man Made. Ma poi, con gli eventi accaduti nei mesi estivi, la morte di George Floyd e le proteste Black Lives Matter che sono seguite, abbiamo sentito la necessità di adottare una prospettiva che fosse più generosa e coinvolgente per l’intera comunità.

Qual è la filosofia che sta alla base di questa innovativa location?
Malika: L’isolamento sociale che abbiamo attuato per tutelarci, si è esteso anche al contesto urbano – ci siamo fisicamente disconnessi dalla nostra città. Così in questo modo, avendo a disposizione uno spazio su strada dove poter invitare le persone ci è parso un dono che volevamo condividere. È altrettanto importante sottolineare che il “locale” è ora da considerarsi la nuova dimensione globale: pima della pandemia vivevamo in una condizione estremamente internazionale. Stephen viaggiava almeno una volta al mese in Europa per lavoro e io spesso andavo in visita dalla mia famiglia che si trova in Marocco e Cambogia. Eravamo sempre, notevolmente in movimento! Ma ora, senza la possibilità reale di viaggiare, siamo stati costretti a riconsiderare gli spazi della nostra città. Passiamo molto tempo in bicicletta, prendiamo il traghetto, esploriamo i quartieri a piedi. In questo modo, abbiamo imparato ad innamorarci di nuovo di New York e ci siamo ricordati che c’è sempre molto da scoprire.
S: Sì, dopo la precaria estate che abbiamo trascorso, volevamo davvero fare qualcosa. Abbiamo trascorso così tanto tempo in casa insieme, che è stato positivo per diversi aspetti. In realtà, essere obbligati a confrontare le nostre vite domestiche per la prima volta ci ha portato ad esplorare nuovi modi di vivere la casa e a indagare come il design può supportare questi nuovi ambienti. I risultati di questa ricerca attorno all’isolamento domestico saranno pare di una mia prossima mostra all’High Museum di Atlanta nel 2022.

Contemporaries

Perché avete optato per il quartiere di Dumbo? Collaborate con artigiani locali del distretto?
M
: Dumbo è uno dei quartieri più belli di New York, con la sua storica architettura industriale, la struttura del ponte di Manhattan e di Brooklyn, la riva del fiume. Negli anni ‘90 era una destinazione popolare tra gli artisti in cerca di studi a buon mercato, con alti soffitti e luce naturale. Non a caso fu un artista a coniare il termine “Dumbo”, che è l’acronimo di “Down Under The Manhattan Bridge Overpass”. Oggi è uno dei distretti più ricchi della città, grazie alla più alta concentrazione di milionari.
S: Ma questo non è il motivo per cui abbiamo aperto qui. Siamo in realtà capitati in questo spazio casualmente mentre stavamo girando in bicicletta nel quartiere un pomeriggio di gennaio. Da allora abbiamo avuto modo di conoscere un po’ meglio l’area. Uno dei nostri posti preferiti della zona è il caffè giapponese Usagi, progettato da Sou Fujimoto: ha una splendida architettura e una bella selezione di libri sul design.
M: Parlando di libri e collaborazioni, uno dei nostri partner per Contemporaries è l’Head Hi Bookstore and Cafe di Brooklyn Navy Yard. Per ogni nuovo progetto che esponiamo, ci supportano nel curare una selezione di cinque-dieci libri, permettendoci di andare più nel profondo del tema. In qualità di bibliofili, espandere la collezione di libri è molto importante per noi.

Potete raccontarci della prima esposizione, The Radical Window, che avete organizzato in occasione dell’apertura?
S: A Radical Window era una mostra che abbiamo curato a partire dall’archivio del nostro caro amico Henrik Ansat, storico dell’arte e collezionista di design, chiamato Archiviste XX. Attraverso oggetti come la Fronzoni Chair, la Polaroid SX 70, accanto a poster delle proteste studentesche della Parigi del ’68 o del pugno sollevato di Angela Davis, intendevamo affermare come i tempi non sono ancora mutati abbastanza!
M: Denominando la mostra “A Radical Window”, speravamo anche di ispirare un’ideale di opportunità, ricco di possibilità e immaginazione. La parte migliore di questa particolare attivazione sono state le conversazioni che ne sono scaturite con persone di differenti background ed età su questioni di rilevanza politica come il diritto di voto, la sessualità o la giustizia razziale.

Contemporaries

Contemporaries non è una galleria, non è uno studio, non è uno store. Come lo definireste quindi?
S
: Contemporaries non ha una definizione distintiva e non è specificatamente connesso al mio studio Stephen Burks Man Made. Invece, riguarda l’incontro di due differenti percorsi. Per questo ci piace riferirci a Contemporaries come un progetto di studio vetrina, perché conferisce una natura sperimentale all’intera impresa.
M: In un certo senso, preferiamo lasciare la definizione indefinita, perché comporta che siamo sempre in evoluzione. Quando qualcuno varca la porta chiedendoci cosa sia Contemporaries, ci occorre diverso tempo per spiegarglielo. È come tentare di raccontare una storia senza un finale definito. E credo che sia ciò che lo rende così accattivante per noi.
S: Sì, questa idea di non sapere è importante, perché lascia spazio alla spontaneità dell’incontro che, per me, è la natura stessa di New York.

Quali sono i vostri progetti futuri?
M: Ciò che abbiamo imparato dall’avere una delimitazione fisica è che lo spazio concreto non è necessario: ciò che importa maggiormente sono le nostre idee e come le comunichiamo. Penso che ritroviamo noi stessi nel momento in cui le nostre relazioni con lo spazio e con gli altri vengono completamente riprogrammate. Essere in grado di leggere e interpretare questi cambiamenti sarà di massima importanza.
S: A breve saremo partner di alcuni brand di design così come del NY x Design Pavilion per esplorare come i processi progettuali integrati a livello locale possono aprire la strada al design thinking del futuro.

Contemporaries

Qual è il vostro sogno per Contemporaries?
S & M: Speriamo di sfruttare Contemporaries come strategia culturale per il nostro tessuto urbano nell’epoca post-Covid. E se Contemporaries desse vita a una serie di interventi su scala minore che prendono piede in un distretto oppure ovunque in città o attraverso il globo? Speriamo di trovare partner con la nostra stessa mentalità che si interrogano sulle stesse questioni a noi care e siano aperti all’idea di una sperimentazione creativa collettiva.

Contemporaries. A Storefront Studio Project
192 Water Street, Brooklyn – New York