In tre parole, la firma distintiva del suo stile?
Direi una sorta di razionalità, perché questa corrisponde al carattere; una correttezza in termini di originalità del disegno, e un gusto personale che in molti casi viene definito borghese, ma che preferisco considerare sobrio.
Qualè la formula progettuale che adotta in ogni sua realizzazione?
Seguo un metodo pragmatico: progetto, estetica, produzione e mercato. L’estetica è il primo punto che origina il progetto, il quale nasce sempre da rapporti, se possibile, duraturi con le aziende; quindi diventa un naturale work in progress. Ma si tratta sempre di intuizioni condivise. Il progetto deve poi essere producibile e per producibile intendo che sia corretto per l’azienda per la quale è disegnato e che la produzione non implichi delle lavorazioni tali da appesantire il prodotto o penalizzarlo, anche a livello commerciale. Infine, è da considerare il mercato: a chi va questo prodotto, dove può essere applicato.
La vedremo protagonista del salone del mobile con importanti aziende dell’arredo. Come riesce a far convivere le diverse committenze?
Cerchiamo di lavorare allo stesso tempo con poche aziende, dove è possibile non sovrapponendo le tipologie. Il problema è che oggi molte aziende sono diventate molto versatili, coprendo tutte le tipologie dell’arredo. Ma soprattutto cerco di lavorare con interlocutori con cui è possibile instaurare un rapporto duraturo, perché imparare a conoscere l’azienda e trovare il prodotto per lei più giusto richiede tempo, applicazione e dedizione.
Dà quindi molta importanza all’aspetto etico e umano del suo lavoro…
La qualità del lavoro è definita anche dai rapporti che si instaurano. Dal momento che il lavoro che faccio mi piace, mi considero fortunato, pertanto intendo conservare questa buona percezione della professione. Allora preferisco – magari dando l’impressione di non essere simpatico – fare una selezione del cliente sulla base della reciproca sensibilità e compatibilità. Per questo motivo non mi lego ai prodotti che progetto, ma piuttosto alle persone, alle sensazioni, agli aneddoti che mi rimangono più vicini.
Crede che la crisi economica stia modificando il panorama del Made in Italy?
Rispetto a una crisi economica che si risolverà con la buona volontà e il tempo, reputo che sia più preoccupante l’adeguamento di certe produzioni a una tipologia di gusto che può modificare radicalmente e irreversibilmente la percezione della qualità e della sensibilità del gusto del Made in Italy. Le aziende, per insicurezza o intuizione nei confronti di un mercato magari meno affaticato, si stanno spostando verso una qualità del gusto che non corrisponde alla loro origine, al loro DNA e alla loro provenienza. Il rischio è che muti la concezione che il mercato estero ha del nostro settore produttivo, che ha badato sempre più alla qualità, all’eccezionalità e alla riconoscibilità dell’origine.
Che destino prevede quindi per la nostra produzione nazionale?
In Italia approdano intelletti e culture diverse che apportano forti contaminazioni: questo è in realtà un vantaggio e la grande forza del Made in Italy, che a mio parere corrisponde alla grande capacità produttiva italiana applicata alla qualità e all’estetica. Il controllo della produttività italiana nei confronti dell’estetica è sempre stata una forte componente di distinzione rispetto ad altri mercati produttivi. Ora nei confronti di questi mercati siamo in deficit perché siamo più costosi o vulnerabili, ma siamo decisamente più bravi. Credo che sia necessario non modificare la nostra capacità di ricevere tutte le informazioni, tutte le sensazioni e stimoli da ovunque essi provengano, e di tradurli sempre in un prodotto di qualità, sempre più di artigianalità industriale. Che in fondo è la caratteristica del nostro settore.