
La moda è forse la forma di design industriale maggiormente capace di parlare alle emozioni. E le sfilate, malgrado durino di norma pochi minuti, sono momenti progettati in ogni dettaglio – dall’invito alla musica – per veicolare significati complessi, unendo le funzioni di rito sociale, spettacolo mediatico e dichiarazione estetica. Un’opera d’arte totale (citando il concetto di Gesamtkunstwerk, caro a Wagner), in cui architettura, scenografia, suono, coreografia e oggetti costruiscono un’esperienza unitaria. Con la mostra Catwalk. The Art of the Fashion Show (18/10/2025 – 15/02/2026), il Vitra Design Museum dedica un’ampia indagine al linguaggio della sfilata, dai primi del 1900 fino a oggi. Il percorso espositivo è articolato in quattro stanze, ciascuna dedicata a una fase di questa evoluzione.

1. I primi del Novecento: le origini della sfilata
Nella prima sala, fotografie, filmati e materiali d’epoca documentano la nascita della sfilata come pratica di presentazione. Dai salotti di Charles Frederick Worth e Paul Poiret alle passerelle improvvisate nei grandi magazzini americani o sui ponti dei transatlantici, la moda comincia a uscire dagli spazi privati. Tra le opere in mostra figurano i manichini del Théâtre de la Mode, l’esposizione itinerante organizzata nel 1945 per rilanciare la couture francese nel dopoguerra, e filmati originali delle sfilate di Balenciaga negli anni Sessanta.

2. Il prêt-à-porter e la città
La seconda sezione segue la trasformazione della sfilata in fenomeno urbano. Negli anni Cinquanta e Sessanta, con la diffusione del prêt-à-porter, la moda si lega alle sottoculture e al ritmo delle metropoli. Courrèges e Paco Rabanne sperimentano materiali e movimenti, mentre Kenzo trasforma la passerella in una festa. Memorabile la Battle of Versailles del 1973, che segna l’affermazione della moda americana e la nascita di un nuovo immaginario collettivo. Le modelle nere, tra cui Pat Cleveland, ridefiniscono l’idea stessa di eleganza.

3. La sfilata come evento mediatico
Con gli anni Novanta, la sfilata diventa un palcoscenico globale. Le case di moda, sostenute da grandi gruppi industriali, investono in produzioni di scala teatrale. Karl Lagerfeld trasforma per Chanel il Grand Palais in un supermercato, un razzo, un boulevard. Al contempo, designer come Alexander McQueen, Martin Margiela o Viktor & Rolf sperimentano linguaggi opposti: automi industriali che dipingono un abito, performance in luoghi abbandonati, corpi che si stratificano in sequenze rituali. La sfilata diventa un laboratorio di forme e di idee sul corpo e sul consumo.

4. Il fashion show nell’era iperconnessa
L’ultima stanza affronta la contemporaneità, in cui la sfilata si muove tra spazio fisico e virtuale. La pandemia del 2020 accelera la sperimentazione di formati digitali: Dior presenta una collezione in miniatura in un teatrino di bambole, Loewe invia una Show in a Box, Balenciaga entra nel mondo dei Simpson. Allo stesso tempo, la passerella si carica di significati politici: Rick Owens fa portare le modelle sulle spalle di altre donne, Alessandro Michele (per Gucci) cita il Cyborg Manifesto di Donna Haraway, Balenciaga mette in discussione gli ideali di bellezza con protesi facciali. Mentre la lunga collaborazione tra Prada e lo studio OMA di Rem Koolhaas concretizza il rapporto tra moda e architettura.

Nonostante la velocità della comunicazione digitale, la mostra mette in luce come la sfilata conservi il suo valore di esperienza diretta: momento in cui immagine e presenza coincidono, e in cui il corpo diventa ancora una volta il centro di un racconto collettivo.





