Dal 21 al 26 ottobre 2025, in occasione di Art Basel Paris, l’architetto e interior designer Charles Zana trasforma un grande appartamento parigino del XIX secolo, in passato sede dello storico Circolo Svedese e a pochi passi da Place de la Concorde, in un universo in cui convergono architettura, design e arte: In Situ, 242 rue de Rivoli. Lo incontriamo per parlare del suo lavoro, dei suoi progetti e delle sue passioni.


Come è diventato architetto?
Mio padre, negli anni Settanta, era un grande appassionato di design e d’arte. Apparteneva a quella borghesia francese degli anni Pompidou che amava la modernità. In casa avevamo tavoli di Florence Knoll, la lampada Arco di Castiglioni, pezzi di un’estetica limpida e razionale. Io associavo l’architettura a quel mondo di linee pure e proporzioni. E poiché ero portato per la matematica e attratto dall’arte, mio padre mi disse: “Perché non studi architettura?”.

Il suo primo progetto?
Quando ero studente ho realizzato l’appartamento di un amico a Parigi, un loft. L’ho ridisegnato decine di volte: avevo tempo, entusiasmo e nessuna urgenza di arrivare. È stato il mio primo vero progetto, con tutte le ingenuità e la libertà degli anni Ottanta.
Quel progetto le ha dato visibilità?
No. All’epoca gli architetti si affermavano dopo i quarant’anni. Io ho lavorato molto da studente, poi sono partito per gli Stati Uniti, e mi sono messo in proprio verso i trent’anni. Oggi, invece, si dà fiducia prima: la creatività giovane è più ascoltata, mentre allora contava soprattutto l’esperienza.


Qual è stato il progetto che ha segnato la svolta?
Una grande casa in Svizzera, nel 2000. Dovevo occuparmi solo di un piccolo intervento, ma alla fine il cliente mi affidò tutto. È stato un formidabile lavoro di équipe, sul giardino Lavorammo con Jacques Wirtz. Quella committenza, il luogo e il momento hanno rappresentato una tappa decisiva: un progetto che ci ha fatto conoscere e che ha consolidato la nostra consapevolezza.
Lei è un interprete del lifestyle francese. Come lo traduce in architettura?
La decorazione francese è sempre un equilibrio tra conoscenza del classico e libertà creativa. Come un grande cuoco francese, che conosce la tradizione alla perfezione ma la reinterpreta con un tocco personale. Il nostro secolo d’oro è il XVIII, con le sue proporzioni e la sua purezza. Il “classico ben compreso” resta la base: da lì nasce la modernità, che filtra ovunque con naturalezza.

Lei è anche un noto esperto e collezionista di design italiano, giusto?
Mi ha profondamente influenzato. Dico spesso che non esiste “il design italiano”: il design è italiano. È nato dall’incontro tra architetti curiosi e un tessuto artigianale d’eccellenza. Amo Sottsass, Castiglioni, Mari, Munari. Sottsass, in particolare, ha saputo spostare il confine tra arte e design. Mi ha insegnato che non tutto deve essere funzionale: anche l’inutile può essere poetico.
Spesso paragono Sottsass a Bach. Quando si guarda un suo vaso, sembra un semplice assemblaggio di forme primarie – un cubo, un cono, un cilindro – e colori elementari. Ma nessuno è mai riuscito a ricreare quella armonia. Come nelle Variazioni Goldberg di Bach: appaiono libere, quasi improvvisate, eppure ogni nota è calcolata con precisione assoluta. È quella libertà calibrata che cerco anch’io nei miei progetti.


Lei lavora su progetti pubblici e privati. Qual è la differenza?
Nel privato si instaura un rapporto personale: il cliente proietta desideri, sogni, memorie. Nel pubblico si risponde a dinamiche economiche e collettive, ma oggi si chiede sempre più di umanizzare i luoghi, di dar loro un’anima. Forse perché gli architetti d’interni abituati alle case sanno interpretare la psicologia dello spazio.
Da dove parte un progetto?
Da questo (mostra una grande matita, ndr). Disegno sempre a mano. Agli schizzi poi aggiungo parole e immagini: fotografie, riproduzioni d’arte. È il mio triangolo di partenza. Meno elementi ci sono, più il progetto è forte. Cerco un’evidenza, una chiarezza naturale, dove non si percepisca la mano dell’architetto, ma solo la logica della luce e dello spazio.


E qual è l’obiettivo finale?
Raggiungere l’equilibrio perfetto: uno spazio dove tutto sembra ovvio, ma nulla è casuale. Mi piace pensare ai miei progetti come a una composizione di Mondrian o, di nuovo, a un brano di Bach: complessi nella struttura, semplici nell’apparenza. Quando lo spazio “suona giusto”, so di aver raggiunto il punto ideale.
Come definirebbe il suo stile?
Lo definirei “contestuale”. Vorrei che i miei progetti fossero riconoscibili anche se diversi. Lavoro con delicatezza, rispetto, attenzione ai materiali. Amo l’idea di Scarpa del déjà-vu e quella di Branzi degli Animali Domestici (collezione di mobili che teorizza uno stile neo-primitivo, ndr): un’architettura “addomesticata”, armoniosa, dove ogni elemento trova naturalmente il proprio posto.


C’è un ambito con cui non si è ancora confrontato e che le piacerebbe esplorare?
Mi affascina l’architettura nomade: strutture leggere, effimere, di tessuto, come quelle di Frei Otto che studiavamo negli anni ’70. Ultimamente mi incuriosiscono anche i défilé di moda: spazi emozionali che in pochi minuti comunicano messaggi complessi. È architettura allo stato puro.
Su cosa sta lavorando oggi?
Alla Fondation Bustamante ad Arles, all’interno di una chiesa con resti romani; a una casa ispanica a Miami, che abbiamo scelto di conservare integralmente; e a un hotel a Parigi, Le Cynon, un cinque stelle che aprirà a breve. Siamo appena entrati nella fase più bella: la scelta degli oggetti, della musica, delle opere d’arte. Il momento in cui il progetto prende davvero vita.






