Una delle grandi sfide di oggi è quella di conciliare la sostenibilità delle nostre città in vista dei cambiamenti climatici, con la conservazione dei monumenti e l’apertura alla comunità. In questo senso, l’architetto belga Bas Smets è tra coloro che stanno ridefinendo il campo del possibile. Architetto paesaggista di fama internazionale, Bas Smets concepisce l’architettura come un prolungamento del paesaggio naturale. Per Smets le piante non sono semplici elementi decorativi, ma agenti attivi nella creazione di un microclima autosufficiente. Questa visione si è tradotta negli anni in una serie di progetti innovativi che combinano ricerca scientifica, design e tecnologia. Dalla trasformazione dell’area attorno Notre-Dame, fino al Padiglione del Belgio alla Biennale di Architettura di Venezia 2025, il suo lavoro si basa su una profonda riflessione filosofica sulla relazione tra natura e spazio urbano.
Nella tua pratica architettonica dici di non avere tanto uno stile, quanto un metodo. In cosa consiste?
Il mio metodo “l’urbanistica biosferica” consiste nel guardare alla città come a sorta di “seconda natura,” in cui gli edifici modificano le correnti e i venti, modificano l’esposizione solare. Strade e piazze modificano il deflusso dell’acqua, alterano la permeabilità. Abbiamo deciso di studiare ogni elemento della città o dell’ambiente urbano come generatore di un microclima.
Nella tua pratica lo spazio l’urbano è un prolungamento della natura; quanto è importante rivedere le nostre categorie mentali per iniziare a creare ambienti più sostenibili?
Penso che dobbiamo allontanarci da questa opposizione tra cultura e natura, e dalla concezione dell’ambiente come qualcosa che semplicemente sta attorno a noi: ne facciamo parte. Darwin diceva che le piante modellano l’ambiente più di quanto l’ambiente modelli le piante.
Le piante di fatto producono l’ambiente in cui viviamo, quindi è proprio la coabitazione tra vita vegetale e vita animale ciò su cui dobbiamo concentrarci come architetti.
Sono due anni che insegni ad Harvard, e ogni anno analizzate una città per capire come può diventare più resiliente ai cambiamenti climatici. Puoi farmi degli esempi?
Per ora abbiamo studiato città come New York, Parigi e Atene, immaginando scenari di riscaldamento globale a +2°C, +3°C, +4°C e +5°C. Più il cambiamento climatico diventa drastico, più le soluzioni devono essere radicali.
Parigi, per esempio, negli ultimi dieci anni ha preso molto sul serio il cambiamento climatico, piantando alberi in massa e ripensando la permeabilità del suolo. E credo che molte altre città seguiranno il suo esempio.
Ti concentri molto sull’importanza del suolo. Puoi parlarcene in relazione al progetto che hai seguito per ridisegnare la zona attorno Notre-Dame?
Il suolo è ciò che rende possibile la vita delle piante, ma nelle nostre città abbiamo creato uno strato impermeabile che impedisce all’acqua piovana di infiltrarsi nel terreno. Così, le falde acquifere si abbassano e gli alberi secolari non hanno più accesso all’acqua. Inoltre, si generano sia siccità che inondazioni.
Per risolvere questo problema, per diversi progetti abbiamo creato falde acquifere artificiali sotto i marciapiedi, in cui piantare alberi che riporteranno l’acqua nell’atmosfera, raffreddando l’aria.
Nel caso di Notre-Dame, oltre a riprogettare lo spazio pubblico attorno alla cattedrale, abbiamo trasformato il parcheggio sotterraneo inutilizzato. Abbiamo rimosso un livello per creare uno spazio per la raccolta dell’acqua piovana, da riutilizzare per l’irrigazione e che rinfresca l’ambiente attraverso l’evaporazione.
Come hai conciliato i diversi aspetti di sostenibilità ambientale, comunità e il patrimonio storico nel progetto di Notre Dame?
Penso che lavorare con i monumenti sia cruciale, perché sono gli elementi più longevi della città. Il nostro obiettivo era creare uno spazio climatico attorno a Notre-Dame, studiando il vento della Senna, l’evapotraspirazione degli alberi, la riflessione della luce solare.
Dovevamo rispettare la storia, ma proiettarci nel futuro. E quindi, in un certo senso, si trattava di essere rispettosi del passato, ma anche di capire come questo possa evolversi nei prossimi 10, 20, 100 anni.
Come si è articolata la tua collaborazione con Stefano Mancuso e Valérie Trouet per il padiglione belga alla Biennale di Architettura di Venezia?
Per Venezia ho chiesto a Stefano se fosse interessato a portare queste piante all’interno di un microclima controllato. Un edificio è già in sé un microclima: blocca il sole, il vento, crea un ambiente simile al sottobosco di una foresta subtropicale, con l’unica differenza che non piove.
Abbiamo quindi inserito dei sensori nelle piante, per cui illuminazione, irrigazione e ventilazione vengono decise dagli alberi stessi, creando un microclima all’interno del padiglione. Non si tratta più di aria condizionata nel senso tradizionale, ma di un’intelligenza vegetale o naturale che regola le condizioni climatiche interne.
In passato hai detto di non essere ottimista rispetto al futuro climatico, ma allo stesso tempo il tuo lavoro testimonia il fatto che dobbiamo avere speranza e agire in questa direzione.
È un momento storico interessante. Da un lato, l’intelligenza artificiale è sia una promessa che una minaccia. Dall’altro lato abbiamo la NI, “natural intelligence”, che ora comprendiamo molto meglio. Inoltre rispetto a dieci o vent’anni fa, c’è stata una presa di consapevolezza radicale rispetto al cambiamento climatico.
Quel che è certo, è che di fronte a un pericolo imminente si hanno due opzioni: o si resta paralizzati e con le mani in mano, oppure si decide di agire con ogni mezzo possibile, anche senza la certezza di riuscire. Ecco, per me agire è un obbligo morale.