
All’inizio dell’anno, i milanesi che passavano davanti al Padiglione d’Arte Contemporanea di via Palestro (dove era in corso Metal Panic, personale di Marcello Maloberti a cura di Diego Sileo) vedevano un grande braccio meccanico che innalzava la parola “cielo”, ma capovolta, scritta al neon. Era Cielo (2022, esposta alla Biennale di Bangkok di quell’anno). Quella di Maloberti, classe 1966, è una figura poliedrica di artista: scrive a pennarello sentenze e aforismi, immagina (e realizza) performance, mettendo un contenuto di poesia e di déplacement in tutto quello che fa. Da qualche tempo ha iniziato a far realizzare le sue scritte al neon, sempre bianco. Quello che ha voluto per illuminare i soffitti di casa sua. I mobili e gli oggetti, pochi, sono pezzi di Achille Castiglioni, Enzo Mari, Gae Aulenti. A terra qualche lampada sempre d’autore, come la Lari di Mangiarotti.

Buongiorno Marcello. Forse non lo sai, ma durante il prossimo Salone del Mobile.Milano si tiene anche Euroluce, una manifestazione dedicata appunto alla luce. Mi è venuta voglia di parlarne con qualcuno che non fosse un designer o un industriale. Un artista, magari?
Grazie, che bella idea. Della luce, soprattutto nei miei lavori dedicati alla parola, mi piace il valore scultoreo. Uno non pensa che la luce possa averlo, invece è la cosa che più mi affascina. C’è naturalmente il suo aspetto immateriale, però a me piace quando diventa più fisica. Un mio lavoro, Circus, è una grande installazione fatta con un tendone da mercato a cui sono appesi trecento specchi, che la sera vengono illuminati dai fari di macchine parcheggiate lì intorno e che diventano una sorta di disco ball. È la luce, che crea vita all’interno di questa grande installazione, che ha una dimensione scultorea. E poi per me è sempre legata un po’ all’idea di magia. Rispetto alla parola, anche in questo caso, c’è una dimensione fisica: il tubo al neon. Che non viene mai visto come qualcosa di piano ma tridimensionale. Per me la luce ha un suo volume, ecco.

Mi racconti delle tue scritte?
Lavoro molto con la grafia, non solamente mia. Abbiamo lavorato con Liliana Segre al memoriale della Shoah, esternamente e anche all’interno. Ci sono due frasi composte con la sua grafia. È come un lavoro fatto a quattro mani. Sono entrambe legate alla sua memoria, che durante l’internamento guardava molto il cielo, le stelle. Un appiglio di speranza. L’idea della grafia mi piace perché è un disegno che diventa più scultoreo, come anche al PAC, dove a queste frasi, sempre scritte da me, si poteva girare attorno, vederle anche da dietro. Come una specie di sipario. Ultimamente la parola mi abita di più. Siamo abitati dalla voce, dalla parola. La luce poi mi rimanda anche alla idea di classicità, un’idea che mi interessa molto. Forse se accendo la luce, accendo un giorno, il futuro, l’istante.


E – banalmente – a livello di oggetto?
Non amo tanto i lampadari. Non so perché ma sono più per le lampade a terra.
Per questo in casa hai messo dei neon. Quando hai iniziato a scrivere le tue “martellate”?
Per un artista la prima forma di scrittura è dare un titolo, dare voce a un lavoro. I miei sono sempre stati un po’ particolari: La vertigine della signora Emilia, La distruzione di un mattino. Sono narrazioni contratte, sono quasi più degli oracoli. In aula dei miei studenti mi hanno detto “eh, però dovrebbe scrivere le cose che ci dice”, perché queste frasi mi arrivano un po’ all’improvviso. Mi piace l’idea del frammento nella scrittura, di queste frasi che dicono e non dicono, che sono quasi degli indizi.

Parlando di oggetti mi vengono in mente alcune tue performance, quelle in cui un gruppo di ragazzi e ragazze distruggeva delle pantere.
Quel lavoro nasceva nel dare forma attraverso la distruzione, cioè rompo un oggetto per creare un altro tipo di forma, un frammento, una rovina. Una cosa considerata finita e io la distruggo per renderla non finita. Erano performance che duravano anche solo un minuto. Una l’avevo fatta al Macro, a Roma, dove erano state spaccate 25 pantere fatte apposta. Mi piace l’idea di frammento perché forse sono un po’ anche un guerriero.

Domanda banale, visto che siamo nella settimana del design: com’è la tua casa ideale?
Uno dovrebbe avere almeno più case, dai! Vorrei una casa in città, una casa in campagna, una casa al mare, una casa in montagna. E magari anche una all’estero. Con pochissimi oggetti, pochissimi mobili e moltissima luce. Quella al mare potrebbe essere Villa Malaparte, a Capri. In montagna la vorrei brutalista. E all’estero mi piacerebbe Lisbona. Ha una luce che, quando cammini, dà quasi fastidio.
Credits
All photos courtesy the artist, Fondazione Memmo – Rome, PAC, Padiglione d’arte Contemporanea – Milan, Memoriale della Shoah of Milan and Galleria Raffaella Cortese, Milan – Albisola.