Ciao Cristián, come stai? Ma soprattutto dove sei? Ci incontriamo sempre un po’ dappertutto, a Parigi, a Milano (dove hai vissuto per un po’)…
Sono a Buenos Aires, dove sono tornato dopo la pandemia. Avevo una grande mostra in cantiere e sono venuto per lavorare al progetto; poi ho deciso di rimanere, riaprire studio etc. Nella mia vita tutto cambia rapidamente.

Come sei diventato designer?
Ho studiato Industrial Design un po’ per caso: la mia prima opzione era stata ingegneria chimica. Poi ho capito che non faceva per me, ho lavorato un po’ con la mia famiglia e alla fine mi sono iscritto ad Architettura, che mi ha sempre interessato. Mi attirava l’aspetto artistico della disciplina, fin da bambino ho disegnato, paesaggi, ritratti etc. Quando ho iniziato Industrial Design naturalmente la cosa era molto diversa: i primi due anni non sono andati molto bene ed ero un po’ preoccupato sul mio futuro. Così ho preso un altro anno di pausa.

Poi cosa ti ha fatto cambiare idea?
È successo quando ho capito che il design non è solo un discorso di funzionalità ma anche di concetto. Pensare solo all’aspetto funzionale mi faceva sentire come chiuso in una scatola. Poi al terzo anno uno dei miei professori, José Maria Aguirre, è stato il primo a capirmi. Mi ha provocato, stimolato, fatto vedere che il design aveva anche altre facce. Tutto improvvisamente è diventato più interessante, ho iniziato a partecipare a concorsi, a proporre idee nuove. Il primo riconoscimento che ho ricevuto è stato quello del Premio Magistretti, a Milano, nel 2007. In giuria c’erano Norman Foster, Patricia Urquiola, Marva Griffin e Maddalena De Padova. L’oggetto era uno sgabello in cartone, il tema era la semplicità. Vinsi il secondo premio e mi invitarono a Milano per la premiazione. Fu un colpo di fulmine. Avevo vent’anni e improvvisamente il mio lavoro aveva visibilità. È stato fantastico.

Come definiresti il tuo modo di fare design?
Per me il design è un gioco. Un modo diverso di vedere le cose di tutti i giorni. Mi piace osservare tutto, faccio foto. E cerco di scoprire nelle cose semplici qualcosa di più. Una volta mi hanno detto “Hai la capacità di trasformare l’ordinario in qualcosa di bello”, è stato un complimento bellissimo. Penso che ogni oggetto sia frutto di un processo di design, io cerco di vederne una nuova versione. Di vederne l’anima.

Qual è stato il tuo primo progetto?
Uno sgabello fatto in legni diversi, nel 2005, da studente, per un concorso in Brasile. Il primo oggetto che ho realizzato con le mie mani. Il nome è Bois, “legno” in francese.

Ti senti molto legato all’Argentina?
Quando sono arrivato a Milano facevo finta di essere un designer italiano, o almeno europeo. Poi un collega mi ha detto: “Rispetto a noi, la tua forma di vedere è totalmente diversa. E la devi rispettare.” Più sei onesto con te stesso, più sei onesto con le persone con cui vuoi lavorare. Quando ho iniziato a far vedere il mio lavoro in un modo diverso, il mio modo, tornando alle mie origini, e si sono aperte tante porte: avevo la mia visione. Non necessariamente più originale, sicuramente più autentica. Più vicina ai miei valori, che volevo trasmettere nelle cose che facevo.

Hai vissuto in Europa e in Argentina. Cosa ti danno questi due posti così diversi?
L’Europa mi ha dato una visione più professionale, con le aziende non devi faticare per far capire il valore del design. Qui è tutto diverso: né il mercato né la capacità industriale e commerciale sono forti. L’Argentina però mi ha dato la libertà di fare quello che avevo voglia di fare. Quando sei a casa tua è come nuotare in acqua trasparente, vedi tutto. Qui sono più rilassato. E sono uno uno dei pochi progettisti argentini che riesce a lavorare con aziende locali ed estere.

Progetti per il futuro?
Lavoro con azienda colombiana, Verdi, che si presenta al Salone; con cc-tapis; sono anche uno dei designer scelti da Louis Vuitton per la loro prima collezione Casa. Poi sto lavorando con Ethel, azienda brasiliana, e con tante realtà argentine. Ho anche iniziato a lavorare come interior designer, per case e soprattutto alberghi: una bella sfida. Ma mi piace pensare a tutti i dettagli di un progetto, come in Apacheta realizzato per Loro Piana nel 2023: mi hanno dato carta bianca, ho scelto anche il colore della pelle della cartella stampa. Forse anche troppe decisioni da prendere, ma l’opportunità era unica ed è stato il grande stimolo.

Adesso sto lavorando al libro sui miei primi venti anni da designer. Uscirà nel 2027 e parlerà di tante cose: di oggetti che mi hanno emozionato, di processi, di tecniche di lavorazione, di texture. Dico sempre di essere un artigiano nel corpo di un industrial designer. Ho sempre cercato di collegare queste due dimensioni. La dimensione artigianale è come una firma, ogni pezzo è unico. Porta il segno di chi lo ha fatto, il suo Dna. Irripetibile. E questo mi piace da matti.