Lo studio Kuehn Malvezzi – fondato a Berlino nel 2001 dagli architetti Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn e Johannes Kuehn – si distingue nel panorama internazionale per due aspetti principali: il primo è la tipologia di progetti che firmano, in maggioranza luoghi con una forte vocazione pubblica e molto spesso dedicati all’arte; in secondo luogo per il loro approccio, all’intersezione tra progettazione degli spazi e curatela umanistico-culturale.
Un lavoro premiato da numerosi riconoscimenti: tra questi, il Canadian Architect Award, la nomination per il Mies van der Rohe Award e l’arrivo in finale per il DAM Prize for Architecture in Germania. Incontriamo – via computer – Simona Malvezzi, che divide il suo tempo tra Berlino e Milano, dove ha famiglia.
Tu sei italiana, i tuoi due soci sono tedeschi. Come è nato il vostro studio?
Sono nata e cresciuta a Milano, i due fratelli Kuehn ad Amburgo. Ma si sono spostati presto: uno è andato in Olanda, l’altro a Milano per studiare. È lì che ci siamo conosciuti. Finiti gli studi, ho iniziato a cercare lavoro – a Milano ma anche all’estero. Sono finita a Vienna a lavorare sul concorso dell’ampliamento del cimitero di Venezia, poi vinto da Chipperfield.


I titolari dello studio non usavano computer, mi hanno fatto disegnare a mano tutta la laguna. Però ho imparato il tedesco. Sul fronte dell’arte, da sempre al centro dei miei interessi, ho visto che, rispetto all’Italia, lì c’era più movimento, più interesse da parte delle istituzioni, anche più sovvenzioni. E le cariche istituzionali, i curatori, i capi, i direttori erano giovani: c’era un cambio generazionale che allora in Italia mancava.
I titolari dello studio non usavano computer, mi hanno fatto disegnare a mano tutta la laguna. Però ho imparato il tedesco. Sul fronte dell’arte, da sempre al centro dei miei interessi, ho visto che, rispetto all’Italia, lì c’era più movimento, più interesse da parte delle istituzioni, anche più sovvenzioni. E le cariche istituzionali, i curatori, i capi, i direttori erano giovani: c’era un cambio generazionale che allora in Italia mancava. Poi con Wilfried e Johannes abbiamo vinto il concorso per documenta 11, abbiamo fondato lo studio, trasferendolo a Berlino, e siamo andati avanti con progetti sempre legati all’arte. Siamo sempre stati interessati all’arte concettuale quasi più che all’architettura. Abbiamo fatto nostro il processo che questi artisti hanno definito e lo abbiamo applicato al costruire.

Puoi farmi qualche esempio?
Molte volte abbiamo affrontato dei concorsi andando contro il bando concentrandoci invece sul vero problema da risolvere. Ovviamente questo è un rischio. Ti faccio un esempio: uno dei primi progetti che abbiamo vinto era per la facciata della Berlinische Galerie, dove per noi il problema non era tanto la facciata, ma lo spiazzo in cemento, quasi abbandonato, che stava davanti al museo.
Per cui abbiamo immaginato una sorta di piazza, come uno “Scarabeo” giallo con le lettere nere, dove in orizzontale c’erano scritti tutti i nomi degli artisti presenti nel museo. È diventato uno spazio usato dai bambini della zona, molto apprezzato dal punto di vista urbano. E ti potrei fare altri mille esempi, anche di progetti privati, dove abbiamo sempre cercato di tirare fuori uno spazio pubblico da dare alla città.


C’è qualche altro progetto a cui siete particolarmente legati?
Quello di una “casa delle tre religioni”, qui a Berlino. Nel 2012 è stato pubblicato un bando il cui oggetto era l’ideazione di un edificio dedicato alle tre religioni monoteiste (ebraica, islamica e cristiano protestante). Esistono spazi del genere in luoghi come alberghi o aeroporti, ma hanno sempre un carattere provvisorio. Qui si trattava di marcare le tre religioni presenti sul territorio da più tempo, quindi era anche un progetto politico. Abbiamo vinto, e dal momento che si tratta di un progetto democratico i fondi sono stati reperiti con crowdfunding e iniziative simili.
Con questo progetto siamo stati invitati alla Biennale di Architettura di Venezia, a quella di Chicago, a mille mostre in giro per il mondo. E il Victoria & Albert Museum di Londra ha finanziato il modello ligneo, come quelli degli architetti rinascimentali, di cui il museo ha una collezione importante. Un altro museo super interessante che abbiamo fatto è a Montreal, già costruito: un museo dedicato agli insetti, dove tu entri attraverso un percorso labirintico sotto terra, diviso in varie stazioni dove tu puoi vedere come vede un insetto, toccare le cose come fa un insetto. Uscendo da questo percorso sotterraneo si entra in una grande serra con farfalle vive e altri animali. In questo modo si opera una specie di resettaggio: è come se diventasse un insetto anche il visitatore.


Vi occupate anche di altri spazi per il pubblico, come alberghi o ristoranti?
Stiamo facendo delle torri a Tirana, che sono hotel con dentro ristoranti e altro. Ormai l’albergo contiene tante cose che funzionano anche in forma indipendente: la spa, il ristorante, la palestra. In questi edifici i primi dieci piani sono a destinazione ricettiva, il resto residenza. Anche qui cerchiamo di dare una forte connotazione pubblica, quindi lo spazio sotto alla torre è uno spazio che si apre molto. Cerchiamo sempre di dare attenzione a cosa c’è fuori, intorno all’edificio.
Da dove viene questo vostro approccio del “guardare altrove”, specie quando si tratta di un concorso?
Un po’ forse perché siamo masochisti, un po’ perché l’architettura è come la psicoanalisi: tira fuori quello che tu hai già dentro. Mi spiego meglio. Analizzando quello che propone il bando ci concentriamo anche su quelli che possono essere i problemi che stanno alla base. E cerchiamo di risolverli. A volte va bene, a volte no.

C’è un progetto di cui siete particolarmente orgogliosi?
Tanti, soprattutto quelli non costruiti. Abbiamo partecipato al concorso su invito per il Centre Georges Pompidou, un edificio che ha la forza di un manifesto, forse il più bel progetto di Renzo Piano, il più radicale. Purtroppo non l’abbiamo vinto, però per noi è già stato comunque un onore essere nella rosa dei cinque selezionati.
E per il futuro?
Mi piace pensare che possa venire fuori un’idea, un bando di un qualcosa che mai avrei pensato. Mi piacerebbe anche pensare a una città, però anche lì è molto difficile: sai, i grandi piani come quello di Le Corbusier per Chandigarh. Vedremo.