
In un qualsiasi evento mondano è impossibile non vedere o non sentire Marta Sala: altissima e magra, classe innata, è sempre accanto a qualcuno di interessante (conosce tutti) e quasi sempre racconta qualcosa di divertente. Ma il suo carisma non si ferma qui. Milanese da generazioni (un suo zio era Luigi Caccia Dominioni), Marta Sala divide il suo tempo tra il capoluogo lombardo e Parigi. Da qui la decisione di chiamare il suo brand, che festeggia i suoi primi dieci anni, Marta Sala Éditions, in francese. Ma occorre fare una serie di passi indietro.

Prima di tutto va detto che Marta ha lavorato per ben 25 anni, iniziando giovanissima, nell’azienda di famiglia: Azucena, fondata da sua madre Maria Teresa Tosi insieme a Caccia Dominioni, Ignazio Gardella e Corrado Corradi Dell’Acqua. Un nome diventato leggendario che ha portato avanti per anni una progettualità fondata sul senso del “buon design”.
Una questione di Dna, quindi? «Non ho mai scelto di fare questo mestiere, ci ero destinata», racconta Marta Sala, che abbiamo incontrato nel suo appartamento parigino trasformato in showroom in occasione di Paris Déco Off. «È un modo di essere, di contribuire a fare qualcosa di bello e soprattutto di ben fatto. Che poi siano cose grandi o piccole non importa, l’importante è che ci sia qualità in tutto quello che uno riesce a esprimere».
Come è nata MSÉ?
«Negli ultimi anni di Azucena ho capito che stavano cambiando delle cose, e anch’io volevo cambiare. Bisognava fare del nuovo per dare una rilettura del vecchio. E mi sono resa conto che il mondo stava evolvendo in una direzione magari meno ”pura“ ma più ricca, forse anche più italiana. Il mio progetto è stato chiaro da subito: volevo portare la qualità del pezzo unico in una dimensione di distribuzione più ampia. Il desiderio di raffinatezza c’era, ma i professionisti hanno bisogno di numeri. E se un pezzo di design non entra nelle case non ha senso».
Hai scelto da subito di utilizzare materiali e finiture di pregio. Cos’è il lusso per te?
«L’identità, sicuramente. La massima qualità. E, forse, anche creare un’emozione. Ogni persona che lavora a uno di questi pezzi ci mette un po’ di sé, gli danno un’anima. Penso che ci sia una responsabilità nel nostro lavoro, perché entriamo tutti i giorni nelle case di qualcuno, nella qualità di vita di qualcuno, e dunque dobbiamo farlo con rispetto».
Come mai hai voluto una parola francese insieme al tuo nome, italianissimo?
«A Parigi ho imparato molto, e ho voluto rendere omaggio a questo. Ma tutto nasce a Milano, anzi in Brianza dove c’è una capacità di fare che mi lascia ammirata. Una macchina da guerra. In Francia non c’è questa sintonia. Lusso è anche saper seguire il cliente: sono appena rientrata da Roma dove per un progetto stiamo realizzando otto divani dello stesso modello. Non ce n’è uno che abbia la stessa lunghezza».
Com’è stato lavorare con personaggi che hanno fatto la storia del design?
«Dallo zio ho imparato che aveva sempre ragione. Lo ammiravo e mi faceva rabbia allo stesso tempo perché qualsiasi dubbio avessimo con la mamma, arrivava lui con la soluzione meno aspettata ed era sempre quella giusta. Era palese. Mi sono molto divertita con lui, che era ironico e a modo suo provocatore. Cosa che secondo me si legge un po’ anche nelle sue architetture. E di mia madre ammiravo la capacità, la qualità e la mole di lavoro che faceva. Sempre la prima ad arrivare l’ultima ad andarsene, con una passione che sicuramente mi ha trasmesso».
L’impresa più sfidante di questi primi dieci anni?
«Sicuramente il debutto! Fondare la società il 2 febbraio senza avere neanche uno showroom e uscire il 10 di aprile del 2015 con dieci pezzi, tutti inediti, è stato davvero memorabile. La mia è una storia di incontri: all’inizio con Lazzarini & Pickering, con cui lavorare è stato così fruttuoso e divertente che il dialogo è durato ben più del previsto. Con Federico Peri è un rapporto più discreto, i suoi sono pezzi più delicati. Adesso iniziamo una nuova collaborazione con Herzog & de Meuron, una visione nuova, con un tratto ancora più essenziale e direi quasi archetipico. Per me il valore di questa nuova collaborazione è proprio il fatto di dover capire cosa vogliono e perché, è imparare e allo stesso tempo suggerire ed ispirare. Lavorare così è un vero privilegio. E devo dire che in dieci anni ho veramente lavorato tanto, tantissimo: ne è valsa la pena».