Storagemilano è uno studio di architettura e design fondato a Milano nel 2002 da Barbara Ghidoni, Marco Donati e Michele Pasini. La loro scala di progetto va dall’architettura al prodotto, con una costante attenzione alla composizione e ai dettagli, ai materiali, alle forme.
Alla base della loro pratica professionale c’è una ricerca ad ampio spettro che coinvolge anche la moda (hanno lavorato per Dsquared2, Bally, Dolce&Gabbana, Neil Barrett; ma anche per aziende di come Ceramica Bardelli e Gebrüder Thonet Vienna), l’arte e tutto ciò che riguarda concetto, forma, volumi, spazio e materia. Un approccio che spiegano così: «Il nostro obiettivo, fino dagli esordi della nostra collaborazione, è sperimentare con materiali insoliti o diversi, e soprattutto con la luce e lo spazio, con le proporzioni, la composizione e la cura del dettaglio uniti a un pensiero concettuale ed elegante. È quello che facciamo nella nostra pratica professionale ed è anche ciò che cerchiamo in quello che ci circonda e ci ispira». Li incontriamo nel loro studio milanese, disposto su due piani in un edificio del 1920: al piano terra, volumi decisi ritmano lo spazio, a quello superiore affiorano tracce di storia.
Da quanto esiste Storagemilano?
BG – Dal 2002. Ci siamo conosciuti all’Università, io e Michele prima dell’esame di ammissione ad Architettura. Poi, al terzo anno, abbiamo conosciuto Marco.
Cos’è che vi unisce, quali sono le specifiche identità di ognuno di voi?
MD – Ci uniscono le differenze (sorride).
BG – Anche. Mettendo insieme le teste, i gusti e gli scontri si riesce sempre a scremare un progetto arrivando a un terreno comune che convince tutti e tre.
MP – Parliamo lo stesso linguaggio, che deriva dalla nostra formazione. Nella progettazione partiamo sempre dallo spazio e dalla sua divisione, elementi fondamentali. È il grande denominatore che ci accomuna.
Quindi è questo il punto di partenza, la divisione dello spazio?
BG – Più che la divisione dello spazio, la dimensione architettonica all’interno dello spazio. Microarchitetture all’interno dell’architettura. Sono i progetti più semplici e che sentiamo di più. E poi c’è il tema della materia, il secondo dei nostri grandi punti di interesse.
Questo lato materico in cosa si traduce?
MP – Abbiamo dei materiali feticcio: i metalli, il cemento, il legno. Un esempio: l’ottone, che abbiamo scoperto dieci anni fa, un po’ per sbaglio. Utilizzare determinati metalli e spalmarli su grandi superfici ti aiuta a tagliare lo spazio, a creare anche una relazione con la luce, che è fondamentale.
A proposito di materiali, uno dei primi progetti vostri che ho visto – si va molto indietro nel tempo – era uno stand in una fiera di moda, fatto di polistirolo.
BG – È stata un’esperienza, con questi grossissimi volumi un po’ alla Anish Kapoor. Che creavano, a livello sonoro, uno spazio ovattato. A volte utilizzare dei materiali in un modo che non è quello per cui sono ideati porta a belle sorprese. All’epoca i progetti li affrontavamo “live”: vent’anni fa i render e il 3D non erano quelli di oggi. Ci siamo laureati con il tecnigrafo, non con il computer. Un approccio diverso perché ti obbliga ad avere lo spazio in testa, non nel software.
Qual è a oggi il vostro progetto più importante?
BG – È come chiedere a una persona che ha tre figli “quel è quello a cui vuoi più bene”: non si dice mai.
MP – Da subito abbiamo cercato di entrare nel mondo della moda, forse perché pensavamo di regalarci picchi di creatività pazzeschi. In effetti lavorare nel mondo del retail in un determinato momento storico ci ha permesso di creare degli spazii con la matrice di cui abbiamo parlato, e al tempo stesso fortemente emozionali. Con alcuni clienti lavoriamo da più di vent’anni: è un bel traguardo.
BG – In alcuni casi è stato come se avessimo un mecenate che ci lasciava il campo libero. Senza vincoli, neanche commerciali.
Non vi è mai capitato di progettare delle case dove il progetto potesse seguire questa stessa dinamica?
BG – No. Ma è normale, quando sia trattata di progetti residenziali in genere non hai un solo referente ma due, e la cosa inizia a essere più difficile. Poi c’è il modo di vivere di una persona, che ovviamente è molto personale. Cerchiamo di reinterpretare delle situazioni. Però non di imporci. Non siamo abbastanza archistar, forse (ride).
Tornando al vostro modo di progettare – avete parlato del concetto di disegno dello spazio. Quali sono i passaggi successivi?
MP – Dopo la divisione/creazione dello spazio passiamo all’analisi dei materiali, valutando il peso visivo di ogni elemento architettonico. È una dimensione emozionale, tattile, visiva, da cui si passa all’ingegnerizzazione del progetto. È un aspetto divertente del lavoro: studiare il dettaglio tecnico significa codificare visivamente l’estetica di quello che tu vuoi vedere, creare, far percepire.
Qual è il vostro rapporto con il contesto storico dei progetti a cui lavorate?
BG – Quando c’è una stratificazione esteticamente e culturalmente appagante cerchiamo sempre di preservarla e di lavorare magari in contrasto. È bello lavorare in tensione con delle preesistenze quando queste meritano di essere mantenute.
C’è un vostro “marchio di fabbrica”? Un dettaglio, una finitura…
MP – Credo che la risposta sia no. Anche se spesso ci dicono che i nostri progetti hanno una riconoscibilità: forme, materiali, bilanciamento delle proporzioni. Una volta a questa stessa domanda abbiamo risposto “Eleganza”, che è la cosa più stupida da dire. Però credo che tutti noi quando ci mettiamo a definire un progetto, a dire “ok, questo è il punto d’arrivo giusto” un po’ tutti e tre si vada cercando l’equilibrio giusto.
MD – È il filtro dell’understatement. Non abbiamo proprio un codice, è l’insieme delle cose. Abbiamo deciso di chiamare lo studio storagemilano perché desideravamo che lo studio fosse un contenitore di esperienze, di interventi critici, di collaborazioni. Il suffisso “milano” è un desiderio di connotare la nostra cultura di origine: la formazione al Politecnico, la “scuola milanese”. Ma un giorno potremmo creare degli altri contenitori in altre città: storagenewyork, storagesidney. Chissà.