Quello di Elisa Ossino, architetto e designer, è un profilo non facile da incasellare. Lo studio che ha fondato nel 2006 si occupa di interni residenziali e retail, product design (con collaborazioni importanti: De Padova, Boffi, Porro, Dieffebi, Desalto, Tubes…), art direction e set design. Il suo stile è asciutto e suggestivo, gli allestimenti che crea sono concreti ma riescono a evocare un senso rarefatto di magia. Dal 2016 è docente presso l’Università IUAV di Venezia nel Master “Interactive Media for Interior Design”.
Il suo profilo professionale è fatto di molte sfaccettature. Qual è la sua formazione?
Mi sono laureata in Architettura al Politecnico di Milano, dove poi mi sono fermata per un
periodo a lavorare presso l’Aula Multimediale, progetto coordinato verso la fine degli anni ’90 all’interno del Politecnico. È stata un’esperienza speciale, a contatto con una serie di personaggi appartenenti al mondo dell’arte, del cinema, della letteratura, della sociologia. E poi i primi impegnati nella creazione di realtà virtuali. Un incontro con menti creative che sicuramente poi ha influenzato il mio modo di lavorare, fatto dalla stratificazione di linguaggi ma anche da approcci culturali diversi.


Ha iniziato come set designer ma da qualche tempo esplora il mondo della produzione. Qual è il primo oggetto che ha disegnato?
Forse il primissimo è stata una piccola cucina disegnata per Meson’s anni fa. Ma il più noto è un bagno, la collezione Fontane Bianche per Salvatori. Mentre stavo lavorando a un allestimento per loro ho detto a Gabriele (Salvatori, il titolare, ndr) che secondo me nella loro produzione mancavano dei bagni piccoli. E lui ha risposto: «Perché non lo disegni tu?» Nei render poi avevo inserito un rubinetto di mia invenzione: a Gabriele è piaciuto anche quello, così ha chiamato Fantini e lo ha fatto mettere in produzione.


Si sente più architetta, progettista d’interni, set designer o designer industriale?
Un insieme di queste cose. La mia formazione è da architetto: un’appartenenza che sento, forte. Ho lavorato molto nel set design, ambito che trovo affascinante perché consente un distacco dalla realtà e che mi ha permesso di sperimentare in senso “astratto”, che è dove mi porta la mia sensibilità. Questi aspetti progettuali si sono intersecati e sostenuti, e quando ho iniziato a fare interior design si sono rivelati importanti. Cerco di operare un’estrema semplificazione delle forme ma parallelamente di creare segni molto forti: un’iconografia nello spazio che colpisce la memoria.


Quali sono i suoi punti di riferimento a livello estetico?
La metafisica mi ha sempre affascinato. Poi Caravaggio, per la qualità straordinaria della luce nelle sue tele. Morandi, per l’aspetto compositivo, e tantissimi contemporanei. Ma anche i maestri della videoarte e della videoinstallazione: la mia tesi di laurea si intitolava Dall’ambiente elettrocinetico all’ambiente virtuale, era un’indagine sulla smaterializzazione dello spazio, un fenomeno partito con le installazioni degli anni ’70 e oggi evoluto nell’arte interattiva, dimensione che cerco anche nel mio lavoro. Un tipo di interazione con l’ambiente che è sempre più influenzato dall’utilizzo delle tecnologie che ci danno oggi possibilità straordinarie; è una dimensione che sto affrontando molto in tutti i miei ultimi lavori, anche perché credo che in tempi molto brevi anche gli interni e il modo di progettarli cambieranno tantissimo. Sto cercando di indagare su quelli che potrebbero essere gli scenari futuri da questo punto di vista.


A proposito di interni: qual è l’ambiente della casa che le piace di più?
La cucina, perché amo cucinare: mi piace starci, mi rilasso tantissimo, e poi trovo che in
qualche modo cucinare sia un gesto d’amore, perché poi il cibo lo condividi. Poi il bagno, un altro spazio importante per me: è un momento in cui ti dedichi al tuo corpo e stacchi un po’ con la mente. È uno spazio meditativo e rilassante. Sono ambienti che mi piace vivere e progettare.

Tra i lavori che ha fatto, qual è stato quello più entusiasmante?
Di solito è sempre l’ultimo, perché è quello a cui sei più vicino, nel senso di pensiero. Sul design di interni potrebbe essere in questo momento H+O, un appartamento-galleria che abbiamo creato lavorando con una partner danese, Josephine Akvama Hoffmeyer. È l’incontro di due mondi culturali, quello del design italiano e danese (anche loro hanno una tradizione magnifica da questo punto di vista). È uno spazio di ricerca dove lavoriamo molto anche sul tema delle superfici, degli arredi. E su temi che sviluppiamo di volta in volta, l’ultimo è stato la multisensorialità. Se parliamo di progetti in senso più astratto, uno che ho amato tantissimo è stato quello di Officina Temporanea, che era prettamente culturale: invitavamo designer e artisti provenienti da diverse discipline a lavorare su un tema comune. È stato un territorio di sperimentazione straordinario. Un progetto del passato a cui sono molto affezionata.
Ultima domanda: il progetto dei suoi sogni?
In questo momento credo che ci sia un grandissimo bisogno di lavorare in ambito sociale. Mi piacerebbe ideare uno spazio che sia più aperto al pubblico. Lavorare su come lo spazio
influenza le relazioni tra le persone, e quindi creare un ambiente condiviso affascinante.