Le interviste di IFDM: Deyan Sudjic

Laureato in architettura, non ha mai lavorato come professionista: «Perché non sono abbastanza bravo», dice. È invece uno degli autori più più importanti autori di architettura e design a livello mondiale. E direttore emerito del Design Museum di Londra

Deyan Sudjic
Deyan Sudjic

Deyan Sudjic è, soprattutto, un uomo di cultura: la sua lettura dell’architettura e del design è molto spesso legata ad annotazioni sulla società che ha prodotto quelle opere. E le sue osservazioni spesso suggeriscono nuove chiavi di lettura. Lo abbiamo incontrato (via Zoom) e la conversazione si è subito allargata dal design alla situazione mondiale, passando per considerazioni sulla modernità.

Prima domanda: cos’è il design?
Per me c’è sempre stata una leggera schizofrenia. Penso che il design sia emerso in quel momento del passato in cui il legame tra l’artigianato e l’utente è stato spezzato dalla produzione di massa. Prima il rapporto era molto diretto. Chi poteva permetterselo si faceva fare una sedia da un artigiano, così come si faceva fare un paio di scarpe. Le macchine hanno interrotto questo legame. Hanno reso le cose più accessibili, più democratiche. Ma non c’è più quel rapporto personale. Ed è qui che nasce il design professionale contemporaneo. E per certi versi questo può essere visto come un progresso. Per altri, se si crede a William Morris, rende il lavoro meno dignitoso. E introduce anche due diverse versioni di ciò che può essere il design. Una versione è il senso della produzione del desiderio. Come può un produttore dare valore o prezzo a un oggetto prodotto in serie? Come può fabbricare il desiderio? Questo è il tipo di lettura cinica e manipolativa di ciò che può essere il design. L’altra è sempre stata quella sensazione, per quanto ingenua, di vedere il design come un modo per rendere il mondo un posto migliore, uno strumento con cui le persone possono rispondere a bisogni reali. La si potrebbe definire una tensione tra William Morris e Philippe Starck.

La calcolatrice Divisumma 18 con stampante integrata, progetto di Mario Bellini per Olivetti nel 1973 - Photo © Ezio Frea
La calcolatrice Divisumma 18 con stampante integrata, progetto di Mario Bellini per Olivetti nel 1973 – Photo © Ezio Frea

Dove siamo adesso?
Siamo in un periodo in cui l’oggetto non è più così potente come un tempo. Siamo in un’epoca post analogica in cui lavorare con il digitale è qualcosa con cui il design deve confrontarsi. Le vecchie certezze sul fatto che il design renda il mondo migliore sembrano meno sicure. Il Bauhaus credeva che se si interpretano correttamente i bisogni, allora si realizzerà un oggetto che è il più perfetto possibile. Ora c’è la sensazione che se si può effettivamente provare a fare qualcosa di carbon neutral, allora questo è l’imperativo. L’Italia è ancora un luogo in cui, per il momento, c’è una connessione diretta tra le competenze del design e la produzione, che per un certo tipo di design è molto importante. L’Europa ha probabilmente perso la capacità di fare molto nel mondo digitale. I chip di silicio sono prodotti in Cina o a Taiwan. Gli smartphone sono prodotti in una gigantesca fabbrica nel centro della Cina. Il vecchio mondo degli Olivetti, Brion, Siemens o Braun è scomparso e si è dissolto. E così diventa sempre più difficile per il design europeo avere molto da offrire a questi territori.

Visitatori osservano prodotti Braun in occasione di una fiera campionaria, anni ’50
Visitatori osservano prodotti Braun in occasione di una fiera campionaria, anni ’50

Dove pensa che stia andando il design?
Ci sono due cose che vedremo a Milano a giugno che mi sembrano interessanti. E forse sono agli antipodi. George Sowden, che molto tempo fa era un designer Olivetti insieme a Ettore Sottsass, negli ultimi dieci anni sta diventando per così dire cliente di se stesso, utilizzando la catena di fornitura globale per realizzare prodotti che progetta e commercializza in prima persona. Aprirà lo Spazio Quarantaquattro, in corso di Porta Nuova, in cui mostrerà alcuni dei frutti di questo lavoro. Non è l’unico. D’altra parte, trovo davvero intrigante come l’esplosione di Memphis del 1981 ancora non si spenga. Il marchio appartiene oggi alla stessa società che possiede Gufram, e occupano un piano della Triennale con una mostra in cui espongono 200 oggetti Memphis. Due piccole idee: una è il senso di come particolari momenti della storia non passano e l’altra è di come il designer – sempre meno rilevante nell’era delle grandi aziende – possa prendere il comando del processo. Nell’era delle grandi aziende, il ruolo del consulente di design esterno e indipendente, che si tratti di Tesla o di Metaverse o di Apple, è diventato sempre più fragile.

Un’operazione come quella di Sowden rende un designer più vicino alla figura dell’artista?
Non credo. Sowden e gli altri non fanno pezzi unici o edizioni limitate. Stanno semplicemente andando alla fonte,alle fabbriche della Cina continentale, quelle che possono produrre migliaia di caffettiere o centinaia di brocche. Di solito non sono tecnicamente molto ambiziosi, ma questi oggetti possono avere un significato.

Stalin's Architect - Power and Survival in Moscow by Deyan Sudjic
Stalin’s Architect – Power and Survival in Moscow by Deyan Sudjic

Cosa pensa che sia moderno oggi?
La parola moderno risale almeno al XVIII secolo, e per le persone è piuttosto difficile dire che non sono moderne. Tuttavia, devo dire che il mondo non sembra un posto particolarmente attraente al momento, e stiamo assistendo a molti tipi di manifestazioni premoderne. C’è qualcosa di veramente inquietante in un mondo in cui Vladimir Putin può invocare i fantasmi dell’antica Slavia – e parlo da slavo – per cercare di giustificare l’invasione di un altro Paese. Il simbolismo è così strano che l’esercito di Putin, nella sua cosiddetta operazione militare speciale, viene benedetto dal primate della Chiesa ortodossa russa che indossa un abito del Medioevo. E allo stesso tempo, nei territori occupati in Ucraina, pare che stiano reinstallando statue di Lenin e bandiere dell’era sovietica. Che strano miscuglio di iconografia è questo? Si potrebbe dire che questa è la massima espressione della postmodernità. In ogni caso, due anni fa eravamo alle prese con l’idea di una pandemia. Mi ha fatto pensare a come è nata la prima modernità in architettura: dall’igiene.

Stalin's Architect - Power and Survival in Moscow by Deyan Sudjic
Stalin’s Architect – Power and Survival in Moscow by Deyan Sudjic

Le città possono cambiare la storia? E gli oggetti possono cambiare le persone?
Certamente sì. Nella storia, la città è stata un fulcro in cui le persone possono resistere al nazionalismo. L’architetto di Stalin (il nuovo libro di Sudjic è Stalin’s Architect – Power and Survival in Moscow, Thames & Hudson – ndr) era nato in realtà a Odessa, una città costruita quando l’Impero russo si impadronì di quella che allora era una fortezza ottomana. Nei primi anni, Odessa era più simile a Shanghai o a Hong Kong. L’amministrazione era appaltata. Hanno costruito un teatro dell’opera davanti a una chiesa ortodossa russa. La scuola d’arte è stata fondata da un architetto italiano. Si trattava quindi di un luogo molto culturale e dinamico. E questo è il tipo di città che per me fa la differenza. Gli oggetti possono cambiare la vita? Certo che possono. Basti pensare alle conseguenze dello smartphone. Quando Jobs e Jony Ive hanno lanciato il primo iPhone, nemmeno loro potevano prevedere che avrebbe cambiato le dinamiche delle elezioni americane, che avrebbe cambiato il modo in cui ci relazioniamo con gli altri in termini di incontri. E che avrebbe portato all’abolizione di tanti tipi diversi di prodotti e oggetti.