La progettista sudafricana Mpho Vackier ha un credo: il design deve poter migliorare la vita delle persone e soprattutto saper raccontare storie autoctone; forma e funzione vanno di pari passo e semplicità equivale a raffinatezza. Per questo, dopo essersi laureata in interior design a Pretoria e aver lavorato come ingegnere in una miniera, ha fondato lo studio TheUrbanative. «L’ispirazione me l’ha data mio figlio», racconta. «Con le mie creazioni voglio creare un dialogo tra culture».


Combinando design europeo Mid-Century con tessuti di matrice culturale africana, ha dato vita a Homecoming, collezione di arredi in cui forme, colori e texture si rifanno all’architettura vernacolare di Nigeria, Camerun, Niger e Mali. L’aspetto collaborativo è altrettanto importante: molti prodotti infatti vedono il coinvolgimento di imprese e artigiani locali.


«La collezione è cominciata con la poltrona Akaya e da allora si è evoluta fino a includere lampade scultoree, come pure ceramiche e candele dalla forma organica», spiega Vackier. Alla base un’idea globale di casa, «quella che attraverso i social la pandemia ci ha permesso di condividere, facendoci scoprire ciò che tutti noi desideriamo e di cui abbiamo veramente bisogno: sicurezza, comfort e senso di appartenenza».

Anche i nomi dei pezzi riprendono le parole che definiscono l’ambiente domestico e i sentimenti che ruotano attorno a esso in diverse lingue indigene del continente. «Esplorando queste lingue impariamo qualcosa sulle persone che le parlano, sulla loro cultura».


In collaborazione con lo studio di design tessile Something Good di Johannesburg nascono invece una sedia e una coperta che si chiamano come due influenti regine congolesi, ovvero rispettivamente Nasara e Nenzima. Nomi che hanno un peso: perché, come conclude Vackier, «La casa non è una struttura o un edificio, ma piuttosto le persone, le cose e le esperienze che portano gioia nelle nostre vite e danno significato alla nostra esistenza».