Tutto è iniziato a New York nel 1984, anno in cui Rockwell ha fondato il suo piccolo studio di design con uno staff di 20 persone nella 27a strada. Tra i primi progetti c’è stato Sushi Zen, per cui Rockwell ha disegnato un bancone a forma di saetta, contribuendo al finanziamento di quella che sarebbe diventata un’opera d’arte: “Mi ero reso conto di non avere abbastanza soldi per inserire le luci, così ho chiesto un prestito a un amico per finanziare il sistema di illuminazione tanto importante per quella creazione” ricorda. “I clienti sanno che i designer si trovano in una posizione di svantaggio: il design conta molto più per noi che per loro” dice sorridendo. Ora che vanta un organico di 250 dipendenti e uffici satellite a Madrid e Shanghai, il Rockwell Group si conferma un vero e proprio propulsore del design. Di recente, lo studio ha completato un hotel di Chicago che rende omaggio ad Albert Einstein e ai grandi pensatori e artisti della nostra epoca (la hall presenta imponenti librerie con un’intrigante collezione di amenità), oltre a una struttura che strizza l’occhio al Mid-Century Modern californiano nella zona downtown di Los Angeles.

Nel settore alberghiero impazza una nuova tendenza estetica, che antepone una cura meticolosa a uno stile appariscente, un senso di sobrietà a uno smaccato effetto mozzafiato. A cosa è dovuto questo cambiamento di paradigma? Si può attribuire ai Millennial? Alla tecnologia?
I viaggiatori moderni prediligono l’esperienza e la partecipazione rispetto all’opulenza e al possesso materiale: il settore alberghiero inizia a riflettere questo slittamento. I viaggiatori di oggi vogliono vivere un’esperienza autentica, radicata nel proprio tempo e nel proprio spazio. Un esempio molto calzante è Moxy, un marchio alberghiero che promuove un design orientato alla funzionalità e che permette agli ospiti di personalizzare la propria esperienza. È pensato per coloro che vogliono un hotel divertente e adattabile, anziché una sequenza di riti codificati. Il Rockwell Group ha progettato tre importanti aree ricreative del Moxy Times Square di New York: Egghead, un bistrot take-away dedicato ai sandwich con uova, situato al piano terra; Legasea, un vivace ristorante di pesce di ispirazione nautica, con tocchi di rame, piastrelle smaltate e un imponente lucernario; e infine Magic Hour Rooftop Bar & Lounge, una sorta di allegro luna park per adulti con una superficie di quasi 1.000 metri quadri, con un bar ispirato alle giostre, un eccentrico giardino topiario e un’ammiccante campo da golf in miniatura.

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Magic Hour Rooftop Bar & Lounge, Moxy Times Square, New York

Ripensando ai suoi progetti più memorabili, ricorda un aneddoto divertente o interessante che dimostri come non sempre le cose vadano secondo i piani?
Mi viene in mente la scenografia per l’edizione 2009 degli Academy Awards: non è stato uno dei primi progetti in assoluto dello studio, ma è stato il primo che abbiamo intrapreso per la cerimonia degli Oscar. Trattandosi di un evento all’insegna del glamour, volevamo che il palco fosse un vero e proprio gioiello. Abbiamo pensato a un sipario composto da 92.000 cristalli Swarovski personalizzati. Diciannove specialisti hanno cucito a mano i cristalli fino a ottenere delle strisce, che sono state attentamente fissate a un telaio in acciaio dotato di cavi sul palco del Dolby Theatre. Questo estenuante processo ha dato vita a un sipario scintillante, alto 18 metri e largo 9, per un peso complessivo di quasi 3 tonnellate. Ma il luccichio non era sufficiente, perciò ho deciso di aggiungere due pilastri in cristallo.
Due giorni prima della diretta, l’intero cast si è dato appuntamento per le prove generali. Tutto filava liscio, ma a un certo punto un gruppo di ballerini è salito sul palco per un’esibizione legata al film The Millionaire e dall’alto è scesa una scenografia in stile Bollywood. Durante la discesa, la scenografia è rimasta incagliata in uno dei giganteschi pilastri in cristallo, strappandolo da uno dei suoi attacchi. Il pilastro è andato a sbattere in diagonale, facendo cadere sul palco migliaia di cristalli. Tutti sono rimasti paralizzati. Guardandomi attorno, ho intercettato lo sguardo terrorizzato dei ballerini, che sembravano avere scritto in faccia: “Su quel palco non ci metto più piede”. Alla fine, dopo un lasso di tempo che mi è sembrato un’eternità, ho sentito una voce dagli altoparlanti: “Il sig. Rockwell è desiderato sul palco”.

Hotel EMC2 Photo Credit: Michael Kleinberg
EMC2 hotel, Chicago

La progettazione delle scenografie è importantissima per lei, soprattutto considerando il fatto che sua madre era un’attrice. Quali sono i set più memorabili ai quali ha lavorato?
Sono cresciuto in un teatro locale di Deal, in New Jersey, dove ho persino partecipato al musical The King and I portato in scena da mia madre. E ho amato fin da piccolo qualsiasi cosa avesse a che fare con l’idea di costruire. A 12 anni sono venuto a New York e ho visto il mio primo spettacolo made in Broadway, Il violinista sul tetto, diretto da Boris Aronson e coreografato da Jerome Robbins. Sono rimasto ipnotizzato dai movimenti, dal ballo e dalle scenografie. C’era qualcosa, in quella forma narrativa, che trovavo incredibile. In quell’occasione, ho capito che gli ambienti potevano davvero essere controllati, manipolati, in sostanza progettati. Da lì è iniziata la mia passione.
In seguito, durante la mia adolescenza, ci siamo trasferiti a Guadalajara, in Messico. Gli scenari urbani erano estremamente vitali, densi, pieni di colori, oggetti e movimenti, cosa che mi ha trasmesso un brio e una vivacità che porto ancora con me. La mia prima scenografia di Broadway è stata quella per The Rocky Horror Show, nel 2000. Dopodiché Jerry Mitchell, il coreografo, ha fatto il mio nome al regista Jack O’Brien per Hairspray (2002). Da allora ho progettato più di 30 scenografie, a Broadway e non solo. In genere il mio progetto preferito è quello di cui mi sto occupando in quel momento, ma tra i lavori recenti non possono non citare She Loves Me, per cui ho vinto un Tony Award alla miglior scenografia. Ambientato a Budapest nell’estate, autunno e inverno del 1930, racconta la vicenda di Georg e Amalia, due commessi di una profumeria che litigano e battibeccano in continuazione, ma che alla fine si innamorano. Il pezzo forte del progetto è la “profumeria-scrigno”, che si dischiude fino a rivelare gli eleganti interni del negozio.

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Conference room

Parliamo di LAB, la fucina creativa del Rockwell Group dedicata alla ricerca e allo sviluppo. Com’è nata questa idea e quali sono state le sue attività preferite in questo ambito?

Per noi di Rockwell Group, la tecnologia è andata a integrare il nostro modo di lavorare, anziché trasformarlo. Data la nostra propensione a creare emozioni e intrecci narrativi, siamo rimasti davvero affascinati dalla possibilità di immaginare tecnologie che potessero essere incorporate negli spazi. Per approfondire questo aspetto, nel 2006 abbiamo creato uno studio chiamato LAB sotto l’egida del Rockwell Group, che inizialmente era dedicato alle attività di ricerca e sviluppo.
Abbiamo creato un’installazione alla Biennale di Venezia, intitolata “Hall of Fragments”, in cui alcuni filmati diventavano gli elementi costitutivi di nuovi ambienti. Da allora LAB si è espanso notevolmente, fino a creare installazioni inserite in molti dei nostri progetti; non mancano però progetti e installazioni indipendenti, tra cui la hall e il bar Chandelier del Cosmopolitan di Las Vegas, ma anche Luminaries, uno spettacolo di luci interattivo che si tiene a cadenza stagionale in un luogo pubblico di Lower Manhattan, e poi un caleidoscopio abitabile creato per l’atrio dell’edificio in 605 Third Avenue a Manhattan, e ancora l’Hudson Yards Experience Center, un centro espositivo in stile museale che offre un percorso basato su una serie di esperienze coinvolgenti e interattive; e infine il nuovo Spectacle dell’hotel MGM Cotai, un atrio a due piani con una cupola in vetro, costeggiato da negozi e ristoranti, che offre tantissimo spazio per mostre ed eventi occasionali, ma è anche un rifugio sensoriale tra le varie attività ricreative proposte da questa imponente struttura multifunzionale.

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Dream Hollywood hotel, Los Angeles

Quale vorrebbe che fosse il segno indelebile lasciato dal Rockwell Group nel mondo dell’hospitality, quel qualcosa in grado di indurre il settore a cambiare davvero la propria concezione?
Crediamo che la trama narrativa impressa a ciascun lavoro sia ciò che distingue non soltanto il progetto stesso, ma anche il nostro operato. Facciamo molta ricerca per scoprire la storia intrinseca del cliente, dello spazio e del contesto, per poi creare una narrazione che riproponga questa storia. Quindi infondiamo a ogni spazio un effetto sorpresa, un tocco di intimità e un senso di scoperta, completando il tutto con aspetti riguardanti tecnologie, arredi, infissi e attrezzature personalizzati, design degli interni e architettura. Credo che i progetti del Rockwell Group restino scolpiti nella memoria per la loro capacità di connettere le persone, creare rituali e invitare alla scoperta, piuttosto che per una singola scelta estetica o per un approccio specifico.

C’è un progetto a cui non ha ancora lavorato che rappresenterebbe un sogno diventato realtà?
Mi piacerebbe progettare una scenografia per il Met Opera di New York.

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Dream Hollywood hotel, Los Angeles

 

Rockwell Group, photo Credit Sheet
Dream Hollywood
Photo Credit: Emily Andrews

Hotel EMC2
Photo Credit: Michael Kleinberg

LEGASEA and Magic Hour Rooftop Bar & Lounge at Moxy Times Square
Photo Credit: Warren Jagger

Nobu Downtown
Photo Credit: Eric Laignel

Union Square Cafe
Photo Credit: Emily Andrews