Dalla condivisione di uno spazio comune per cominciare a lavorare dopo la laurea alla Ryerson University di Toronto a due studi di progettazione in Canada e negli USA, il percorso professionale di George Yabu e Glenn Pushelberg dai primi anni ‘80 ha preso la forma di una parabola ascendente sulla direttrice fra Toronto e New York. E il punto fisso di questa ascesa, il fuoco che sempre li motiva e che si avverte con chiarezza parlando con loro, è la passione per il lavoro e per le continue sfide del progettare. Interior designer globalmente affermati e pluripremiati nel settore del retail e dell’hotellerie, con un approccio olistico cercano nei loro progetti, hotel residenze negozi, equilibrio, qualità emotive e un concept a tuttotondo per creare luoghi sempre contemporanei che non cedano alle tendenze. Solo nel 2017 sono sette gli hotel, già aperti o prossimi all’apertura, che portano la loro firma: Park Hyatt Bangkok, Las Alcobas St Helena Napa Valley, Viceroy Dubai, Four Seasons Kuwait, The Edition Times Square, e due Moxy a New York.
Come ricordate gli inizi del vostro sodalizio professionale?
Glenn Pushelberg. Ci piaceva lavorare, abbiamo sempre progettato per la soddisfazione di farlo, ci dedicavamo a qualsiasi cosa, un negozio di calzature, un lavasecco, anche solo per “enjoy the design process”, e dopo qualche tempo abbiamo cercato di aggiudicarci progetti migliori.
George Yabu. Il profitto non era la nostra priorità, volevamo dare il meglio di noi, può sembrare naif ma la nostra filosofia progettuale si basava sulla passione unita alle molte possibilità del design. Abbiamo anche progettato un negozio di fotocopie, quando ancora avevano un senso, e doveva essere il negozio di fotocopie più funzionale e più bello che si fosse mai visto.
Qual è stata la vostra prima esperienza nel settore dell’hotellerie?
GY. È stata una fortuna e una vera sfida per noi, molto stimolante, ma eravamo anche un po’ disorientati, perché abbiamo cominciato in quel settore lavorando contemporaneamente a due hotel del tutto diversi fra loro, il Four Seasons Tokyo con sole 57 stanze e il W Hotel Times Square con 500 camere. La cosa difficile era che per entrambi avevamo lo stesso budget e che il committente del W Hotel ci disse che avevamo un anno per completarlo. Ci siamo riusciti in 15 mesi con tre di ritardo dovuti all’attacco alle Torri Gemelle del settembre 2011.
GP. Per il Four Seasons a Tokyo invece ci sono voluti 3 anni. In questo modo però abbiamo imparato molto e molto velocemente.
Da quella prima esperienza come è cambiato il design per l’ospitalità/hotellerie?GP. Lavoriamo da anni per marchi di lusso, come Four Seasons, Park Hyatt, con caratteristiche ben note e consolidate, ma penso che negli ultimi cinque anni il settore si sia frammentato, puntando a tipologie specifiche di clientela. Sta cambiando molto e noi continuiamo a progettare hotel proprio perché ogni nuovo incarico è una sfida dagli obiettivi sempre più definiti, una clientela molto specifica implica soluzioni progettuali altrettanto specifiche, un diverso approccio ogni volta per attirare un target ben definito. Crediamo che questo sia già il futuro dell’ospitalità. Stiamo lavorando, ad esempio, per Equinox, il marchio di centri fitness, che ora vuole realizzare un hotel (n.d.r. New York, Hudson Yards, apertura prevista nel 2019), che risponda allo stile di vita della propria clientela. Più entravamo nel vivo del progetto, più realizzavamo che avesse senso puntare a un segmento ristretto di clientela, che vuole non solo praticare sport ma mantenere uno stile di vita sano anche quando è in viaggio. Altro esempio i due progetti per Moxy, una sorta di “starter hotel brand” (n.d.r. a New York, nuovo marchio del gruppo Marriott) con stanze di 12 metri quadrati per le quali abbiamo disegnato arredi appesi alle pareti che si utilizzano solo quando necessari.
In quali progetti siete più liberi di sperimentare?
GP. Nel settore dell’ospitalità i resort danno maggiore libertà. Stiamo lavorando a progetti in Sicilia e in Montenegro che richiedono molta ricerca sulla cultura, l’architettura, la storia locale per creare una modernità che sia appropriata al contesto, e che possa migliorare l’esperienza del cliente dandogli qualcosa di nuovo. Anche il settore del retail sarebbe adatto alla sperimentazione ma è difficile trovare un committente che voglia innovare. People are shifting their views on “why do I shop?”. I shop because it’s fun, entertaining, unique and not all retailers understant that point, so we’re keen to do more retail and to find the right client.
You are often associated with the word luxury, what does luxury mean for you?
GY. Secondo l’ultimo report della Luxury Society, siamo in un’era post luxury. Esiste un livello di lusso ed esclusività a cui tendono le persone, e che non tutti riescono a raggiungere, ma esiste anche un’idea di lusso che sia effortless, you want it but it’s less obvious it’s luxury, maybe a little less gloss, a little less shine, and I think that’s what people are looking for, it is not so obvious today.
GP. We have a resort project in Montenegro, to me it’s a kind of that post luxury. It feels luxurious but has nothing to do with luxury. Ad esempio, gli arredi delle stanze are matt, rough, blackened, hewn, it doesn’t feel it is manufactured, it feels luxurious, but it is not. Abbiamo utilizzato macramè, che fa parte della cultura del luogo, che appartiene alle montagne. To me it’s like getting the character of the place together, or the luxury of space, una sensazione di qualità che è data dall’uso di materiali inattesi o di lavorazioni diverse.
Siete famosi per i vostri interni. Ma qual è il rapporto fra interior design e l’architettura che lo accoglie?
GY. In the world of hospitality the experience of the hotel is more important that the envelope of the architecture, and in fact sometimes the interiors tend to re-informs the envelope, often we have to fix the architecture when it is not suitable for the hotel experience.
GP. In uno dei nostri progetti per resort l’edificio era nuovissimo, dalle linee molto pulite, con grandi finestre, porte laccate, ma abbiamo voluto modificare il fronte di accesso to create a sense of coming to home, coming to something that has more life to it than a commercial building. E all’interno abbiamo dato risalto alle tecniche artigianali della zona, allo stile del luogo, a schermi, ai giochi di luce naturale nella lobby, al riflesso delle schermature sui pavimenti per creare un tappeto immateriale. In hospitality you need to capture emotional qualities, which is about layering and about being sensitive to something that’s more emotional than intellectual.
GY. We like to think our concepts are fuller, more complete, we have an impact. What’s the message you’re giving to the customer to begin the journey in the hotel experience? Maybe that’s why a lot of our projects have lasted a long time.
In fact I was about to ask why it looks like your interiors hardly age.
GP. We’re not interested to be on trends, but we are interested in creating a point of view, and we are conscious that a hotel does have a poise, it is that balance that we’re looking for in our projects to give some character but also some longevity, some uniqueness. C’è però una differenza rispetto a 10 anni fa ed è che crediamo che un hotel debba avere “more layers, more moments”, molti di più rispetto al passato, the ah ah moments, che rendano riconoscibile l’hotel.
Com’è il rapporto con i vostri clienti?
GY. Il cliente è il proprietario dell’hotel, ma ci sono anche altre parti coinvolte, ad esempio il marchio dell’hotellerie, e a volte non sono d’accordo fra di loro. It’s a tricky tension. Se il brand suggerisce come debba essere l’hotel, è il developer o la proprietà che controlla il budget, e quando si riesce ad accontentare entrambi allora il progetto è un successo.
GP. Quello che conta per noi come designer è “to lead and listen”. Ad esempio nel caso di marchi consolidati, 5 stelle, come il Four Seasons, crediamo debbano pensare ai loro clienti futuri, perché ci vorranno 5-10 anni prima che l’hotel sia completato. We try to objectify the process, we challenge the clients, sometimes fighting this fight for long. The challenge is fighting for what we believe is the right answer, and then giving up when we think others have better answers.