Intervista a Carlo Bimbi

1. Con Tuttuno, avete anticipato una tendenza ed esigenza certamente oggi molto sentite nelle scelte di arredo. Quali mosse ora prevedete per l’interior?

Come sempre il futuro si costruisce a piccoli passi a partire dall’oggi. E oggi, a differenza degli anni in cui abbiamo ideato Tuttuno, non è il singolo oggetto che si deve progettare, ma un insieme di relazioni ambientali nelle quali le collezioni possano trovare ospitalità e diventare punti focali dello stile e della personalità dell’abitare.

2. Come è cambiato negli anni l’approccio alla progettazione dal punto di vista del designer?

Lavoro da oltre 40anni nel campo del design e sono testimone di grandi cambiamenti che nel tempo questo settore ha subito. In primis, il passaggio da una condizione prettamente artistica – come era alle origini – a una più ampiamente imprenditoriale che caratterizza la fase odierna. Negli anni ’70 per noi giovani il design aveva uno sbocco maggiormente creativo: si giocava sulle forme, sulle novità, sulla rivoluzione dei costumi che passasse attraverso la rivoluzione dell’arredamento. In questo il divano, per fare un esempio, era l’oggetto simbolo, capace di orientare e trasformare le abitudini dello stare insieme. C’era quindi un mondo da esplorare e inventare. Oggi non è più così. L’arredamento è diventato prima di tutto un campo finanziario ed economico, che deve far quadrare i conti con un mercato globale.

3. Non ne deriva forse un valore negativo del settore?

No, è il segno dei tempi; si cresce e si deve costruire solidità e concretezza. Il punto chiave è riuscire a mantenere un equilibrio tra il design in sé, che è imprescindibile dalla creatività, e l’ambito imprenditoriale che, se prende il sopravvento, rischia di negare proprio la natura artistica, di ingegno e vitale del design e, quindi, del designer. L’aspetto con il quale mi confronto continuamente è infatti far passare la mia progettualità artistica facendo capire che i costi di oggi sono un investimento per domani. In conclusione, ieri contavano soprattutto le idee e le novità; oggi bisogna saper ottimizzare e controllare l’aspetto globale del progetto.

4. Cambia quindi il rapporto con le aziende?

Le aziende oggi chiedono soprattutto di essere informate fino al dettaglio sui costi e gli impegni di tecnologia della produzione. Scelto il progetto insieme, condividendone l’opportunità per il catalogo dell’azienda sul piano dello stile e della proposta artistica, si deve essere poi in grado di seguirne l’engineering fino a orientare la comunicazione del prodotto.

5. È questa la nuova sfida che ha intrapreso con Borzalino?

Lavoro con Borzalino dal 2000. Ho avviato in quel tempo una collaborazione felice con l’allora titolare Galeazzo Fedi, che si rivelò immediatamente empatica. L’azienda era costruita su solide basi imprenditoriali e di gestione, con la concretezza del fare e la lungimiranza commerciale tipiche dell’imprenditorialità toscana. C’erano già allora tutte le premesse per far sì che questa azienda crescesse, cosa che è stata promossa e favorita dall’attuale management, Cristiana Fedi e Matteo Pieri. Con i titolari ci siamo impegnati affinché le potenzialità e la qualità delle lavorazioni acquisite nel tempo da questa realtà non si disperdessero ma, anzi, fossero esaltate fino a diventarne la ragion d’essere del nuovo corso di vita.
Corso di vita che, alla luce delle condizioni attuali, non può che essere globale. Oggi non basta più essere una piccola azienda che si muove entro un raggio d’azione esclusivamente nazionale, ma si deve andare nei mercati mondiali.

6. La sobrietà stilistica è un valore che da sempre contraddistingue la sua firma. Rappresenta anche una filosofia di vita?

Direi di sì. La mia progettazione è sempre fortemente calibrata con un senso di misura e di concretezza. La scelta di operare nel contesto toscano, da me fatta consapevolmente fino dagli anni ’70, non è un caso. Sono debitore a Milano per la mia formazione, che si è espressa poi in un ambito provinciale ma non privo di cultura e di estro che è la Toscana: voglio citare La Falegnami, Arketipo, Segis, Dema. C’è il centro, ma ci sono anche le  periferie. Oggi se ne parla; per la precisione si parla di rammendo. Io dico che in quelle periferie ci sono potenzialità che vanno sapute leggere e che, per certi aspetti, hanno precorso i tempi. Il centro ha vissuto di grandeur, di opportunità, di ricchezza; la periferia ha dovuto e deve per sua natura fare i conti col senso di misura. E oggi che il mondo convive con limiti e privazioni, proprio le periferie possono diventare dei punti di riferimento. Ho costruito con caparbietà il mio stile, ne sono consapevole e orgoglioso.