La zona grigia di Tom Dixon

Un designer-imprenditore che vola alto, ma con i piedi per terra: questo è Tom Dixon, uomo di design a 360° con un percorso professionale molto atipico, un personaggio concreto e al tempo stesso quasi imprendibile. IFDM lo ha incontrato al The Restaurant, l’installazione del FuoriSalone 2016 realizzata alla Rotonda della Besana insieme al partner storico Caesarstone. The Restaurant rappresenta una delle attuali sintesi del “Dixon-pensiero”: il connubio armonico tra materia, design e cibo. Una rappresentazione d’effetto in un habitat già di per sé affascinante. A suo agio in un contesto che sente proprio, Dixon si è raccontato: le origini da musicista (suonava il basso), la passione per l’ingegneria e la scultura, gli incontri, le ispirazioni e le ambizioni.

 

Lei è un produttore e un interior designer, propone ambienti tra residenziale e contract?

Esatto. Il nostro mondo ideale sta nel mezzo, sospeso tra la solidità richiesta dagli architetti per l’hospitality e l’estetica che caratterizza l’ambiente domestico. Il mio territorio corrisponde a questa “zona grigia”. Siamo molto entusiasti di avere anche un’azienda di interior design e una vetrina di tutto rispetto. Anche in questa occasione (The Restaurant, ndr), a differenza di altri brand, ci siamo presentati in un contesto di design ben preciso. È una nostra scelta.

 

Sul suo sito dichiara di apprezzare l’accostamento tra fantasia e concretezza. Cosa significa?

Non ne sono sicuro, però suona bene! Scherzo. Parlando seriamente, credo che valga il discorso precedente riguardo pubblico e contract. Ad esempio, in una cucina come questa che presentiamo qui a Milano, voglio che gli oggetti sembrino sculture, ma abbiano anche una propria funzione. Il mio raggio d’azione è determinato proprio dalla sovrapposizione tra questi due aspetti. Se creassi solo sculture rinunciando al lato pratico non sarei a mio agio, ma d’altra parte dedicarsi solo a prodotti funzionali è piuttosto noioso.

 

Il ristorante quindi è l’ingrediente segreto del successo di Tom Dixon?

In effetti è così. Trovo che la cucina sia uno spazio interessante, designer e chef hanno  qui una missione in comune: trasformare un materiale grezzo in qualcosa di pregiato. Quella tra cibo e design è un’alchimia, pervasa da un’energia particolare.

 

Questa mattina ho detto a un mio collega che avrei intervistato Tom Dixon e lui mi ha risposto: “Il paladino della Gran Bretagna contro tutti.”

(Ride, ndr) Fantastico.  

 

È d’accordo? Magari non contro tutti…

Sì, forse è troppo. La Gran Bretagna ha sfornato numerosi designer di talento. Esportiamo da sempre idee. Io non ho fatto altro che fondare la mia azienda, come fanno storicamente gli Italiani, e darle il mio nome, come nell’universo della moda. Prima di avviare questa attività mi sono domandato spesso perché i designer non compiano questo passo e non creino il proprio brand. Nemmeno un guru del settore come Philippe Starck ha mai fondato una propria azienda.

 

Chi è l’ispiratore dello stile di Tom Dixon? Esistono un uomo, una donna o una tradizione, non necessariamente britannica, che hanno lasciato il segno?

Non avendo studiato design e non avendo mai avuto intenzione di fare queste mestiere, sono stato influenzato soprattutto dalla scultura e dall’ingegneria. Da ragazzo ero affascinato soprattutto dagli scultori-simbolo dei primi del ‘900, come Noguchi, Henry Moore, o più di recente Anish Kapoor. D’altro lato, ho sempre nutrito grande ammirazione per Eiffel e Brunel, geniale ingegnere civile britannico del 1800. Un altro elemento che ha influenzato particolarmente la mia vita è la musica. Trovo straordinario Panza, famoso collezionista di opere d’arte moderna, e ho scoperto di essere un grande fan degli anni ‘60. Il mio primo impiego è stato quello di bassista in una disco band, i miei miti erano Jimi Hendrix e gli Chic. Ecco perché la mia estetica e il mio approccio al business divergono da quelli di chi ha sempre voluto fare il designer e ha seguito un certo percorso di formazione. Poi, negli anni, ho incontrato altre persone e iniziato a conoscere più a fondo la storia e gli aspetti propri del design.

 

Il suo bilancio è 50% progetti contract, 50% residenziali e vendita solo online. La distribuzione?

Vendiamo quasi esclusivamente attraverso distributori o architetti. Nel Regno Unito o in America operiamo anche per vendita diretta, ma negli altri Paesi solo tramite agenti o rivenditori. L’altro 50% è rappresentato dalle vendite in grandi magazzini, punti vendita di design, piccoli negozi indipendenti o catene come la Rinascente o John Lewis, infine lo shopping online.

 

Qual è il suo rapporto con gli Stati Uniti e i mercati mediorientali?

Cosa ne pensa?

Pur essendo nato in Nord Africa, non mi sono mai avventurato nel mercato mediorientale, ma non escludo che possa succedere presto. L’America, invece, è un mercato in rapida crescita, sta perfino cambiando mentalità riguardo al design contemporaneo. Gli Americani sono sempre stati piuttosto tradizionalisti, affezionati allo stile shabby chic e a Martha Stewart. Adesso invece richiedono prodotti più moderni, in un clima di maggiore fermento.

 

Lei ha realizzato un hotel, vorrebbe lavorare ancora in questo settore?

È fantastico! L’hotel è il progetto più ambito dai designer, perché permette di affrontare tutti i possibili ambienti. Riuscire nella realizzazione di una struttura alberghiera significa riuscire praticamente in qualsiasi altro campo. Quindi sì, mi piacciono gli hotel. Finora ne ho sviluppato uno solo ed è stato il progetto più complicato della mia vita, ma adesso che ho imparato posso fare di meglio. Spargete la voce a Dubai, a New York…

 

Il suo sogno nel cassetto?

Sono abbastanza fortunato da aver quasi realizzato quasi tutti i miei sogni. Faccio un lavoro diverso ogni giorno! Oggi vado in America ad aprire un nuovo negozio, domani volo in India a visitare uno stabilimento, incontro continuamente nuovi clienti che mi propongono nuove idee… Non avevo mai creato cucine prima, e invece a Milano ne ho portate quattro per un ristorante. Vivo di avventure. Dopo aver esplorato differenti mondi – piccoli complementi, oggetti domestici, interni, hotel, parchi – potrei dedicarmi all’architettura e agli open space. A luglio apriremo un nuovo punto vendita a Los Angeles che condivideremo con una maison di moda e un’azienda del settore alimentare. È un grosso progetto e sarà interessante sperimentare la commistione tra design d’interni, cibo e moda.