Anche gli hotel hanno un’anima

Dopo avere firmato insieme a Philippe Starck, Julian Schnabel, John Pawson, Herzog&DeMeuron, Yabu Pushelberg e altri ancora una lunga serie di residenze e di boutique hotel, opere seminali che hanno rivoluzionato negli anni il settore dell’hotellerie come il Royalton, l’Hudson, il Gramercy Park Hotel di New York o il Delano a Miami, Anda Andrei è passata negli ultimi due anni a occuparsi per iStar dell’intero progetto di rigenerazione per Asbury Park, centro urbano sulla costa del New Jersey, un impegnativo piano di recupero che prevede 10 anni di progettazione e sviluppo. Da design director di Ian Schrager, con un fondamentale ruolo di direzione artistica a metà fra committente e interior designer mantenuto con costanza e successo per ben 29 anni, dal 2014 è diventata presidente di Anda Andrei Design LLC. 11 Howard a SoHo, The Norm, il ristorante del Brooklyn Museum, e The Asbury Hotel sono in soli due anni l’esito di questa sua nuova vita e avventura nel paese, gli Stati Uniti, in cui è arrivata nel 1982 dopo avere lasciato la Romania, suo luogo di origine.

 

Cominciamo dalle definizioni, cosa significa per lei boutique hotel?

Il significato è cambiato molto negli anni. Trenta anni fa era semplicemente un albergo di piccole dimensioni, ora può essere considerato un hotel con una propria, inconfondibile identità che non faccia parte delle grandi catene internazionali.

E negli stessi anni come è cambiato il modo di progettare i luoghi per l’ospitalità?

È cambiato moltissimo e si evolve continuamente, sempre cercando di forzare i propri limiti e confini per offrire all’ospite, anche solo per un paio di giorni, non solo un soggiorno ma una esperienza gratificante e coinvolgente. L’hotel design mostra da alcuni anni una nuova libertà progettuale che si esprime con inventiva e fantasia soprattutto negli spazi collettivi, sempre più in trasformazione, creativi e multifunzionali.

Come quelli realizzati da lei e dai designer di Bonetti Kozerski Studio nel nuovo Asbury Hotel, nella città di Asbury Park sulla Jersey Shore.

Si, abbiamo cercato una nuova interpretazione degli spazi comuni intesi come social hub, in primo luogo perché l’hotel è il primo elemento realizzato in un piano di rigenerazione di un intero centro abitato e deve diventare il nuovo polo di attrazione per gli abitanti. Inoltre, essendo l’unico albergo della zona non avevamo concorrenza o punti di riferimento. Ci siamo fatti ispirare dall’ambiente marittimo e di vacanza per inserire con grande libertà molti spazi collettivi, anche sovradimensionati rispetto al previsto numero di ospiti, per consentire molteplici attività, dal gioco alla musica, al riposo, socializzanti o individuali.

Alla libertà nella progettazione corrisponde un maggiore agio anche per i fruitori degli spazi?

A volte il design prende il sopravvento, progettare un oggetto o uno spazio implica che ci si aspetta dalle persone che li utilizzano che si comportino in un determinato modo. In realtà dovrebbe essere il contrario. E così, ad esempio, nella grande lobby dell’Asbury volevamo che le persone si comportassero esattamente come preferivano. Gli arredi quindi non hanno una posizione fissa, prestabilita, non impongono una certa posizione di seduta, quasi tutti possono essere spostati e utilizzati in base alle diverse attività svolte in diversi ambiti della lobby. Abbiamo cercato di far fluire la funzione nel design e non viceversa.
Creare uno spazio ma anche l’atmosfera all’interno dello spazio forse è la cosa più difficile da fare quando si immaginano come dovrebbero essere i luoghi.

Come nelle residenze, anche negli alberghi sempre di più non si tratta semplicemente di inventare e progettare uno spazio funzionale, ma anche l’atmosfera che lo caratterizza.

Esatto, nell’11 Howard Hotel non volevamo un progetto autoriferito o narcisista, che spiccasse troppo in una delle ultime via autenticamente tipiche di SoHo. Cercavamo invece l’atmosfera e il significato di un luogo quasi domestico, legato al contesto urbano e sociale, e che soprattutto fosse senza età, come sono molti luoghi di New York che restano uguali per anni, al di fuori delle mode che investono anche l’interior design, che sono sempre amati e contemporanei.
Non credo che il design degli spazi debba seguire le mode, penso che dovrebbe essere più more timeless, che sia gli spazi sia i materiali acquistino bellezza proprio con il passare del tempo, e che non si debba cambiare tutto ogni cinque anni per assecondare lo stile del momento.

Nell’11 Howard il rapporto con l’arte è importante, anche in considerazione del fatto che il proprietario è un collezionista d’arte. Molti boutique hotel o design hotel, oggi integrano l’arte nel progetto,

Con l’11 Howard abbiamo avuto la fortuna di avere come committente Aby Rosen, grande collezionista, tuttavia l’arte trova la giusta dimensione come integrazione al progetto complessivo. Penso che gli artisti possano avere un ruolo importante nel creare gli spazi e le atmosfere perché sono sempre attenti alle questioni che investono la società, i comportamenti, la politica. Tuttavia in alcuni casi l’inserimento di opere d’arte nel progetto degli hotel rischia di diventare forzato e di disturbarne l’equilibrio e l’armonia.

 

Credito del ritratto: ©Brigitte Lacombe
Altre foto: Nikolas Koenig