Intervista a Massimiliano e Doriana Fuksas

Come vivete il vostro rapporto professionale?

Lavoriamo insieme da più di 30 anni. Non riusciamo a vederci come architetti in senso stretto. La linea di pensiero è più simile a quella di un artista visivo. Dal 1997 dirigo (Doriana, ndr) il Dipartimento di Design, nato con le prime progettazioni di interni. Quindi sono io a seguire soprattutto gli interni e l’ideazione di oggetti, mentre Massimiliano si dedica con più entusiasmo alla grande scala.

Siete stati tra i protagonisti della mostra Dove vivono gli architetti, in occasione del Salone del Mobile di Milano: installazione per scoprire le case di chi le case le fa; tra queste, la vostra abitazione di Parigi. Com’è la vostra casa?

Le nostre case, non solo quella di Parigi, sono sempre state concepite come spazi aperti, con piccole stanze da letto e servizi in base alle esigenze del momento. Rispecchiano il passare del tempo. Le esigenze inevitabilmente cambiano e bisogna ripensare il tema dell’abitare.

Cosa vi guida in un progetto di interior design?

La continua evoluzione, legata alla ricerca di nuove forme, materiali, ma anche di colori, atmosfere. Una costante è il rapporto con l’arte e il dialogo con gli artisti, a volte quasi inconsapevole. Occasioni di incontro e di dialogo tra sensibilità creative diverse. Soprattutto ci piace affrontare le sfide. Tutti i materiali hanno delle potenzialità, bisogna solo capire come utilizzarli al meglio. Spesso la volontà di disegnare nasce dall’insoddisfazione e dalla non coerenza che si ha quando i propri progetti devono far ricorso naturalmente a tutti gli elementi che possono essere indicati nell’ambito dell’interior design. La coerenza tra una maniglia e un’apertura, oppure fra l’organizzazione interna di uno spazio per uffici che ha bisogno di tavoli e di sedute, diviene una forma di attrazione misteriosa che porta l’architetto a occuparsi dei piccoli oggetti. Ma il metodo di lavoro per la progettazione di un edificio o di un elemento d’arredo è il medesimo.

A quale stadio della storia del design ci troviamo secondo voi?

L’autonomia del design ha ormai superato i limiti che si era dato per conquistare settori e orizzonti compatibili con forme di vita più complesse. Il design italiano in particolare, nonostante la globalizzazione dei mercati, ha sempre mantenuto un legame profondo con l’artigianato e gli usi locali, con uno sguardo aperto verso prospettive future. Tradizione, innovazione e grande raffinatezza sono componenti fondamentali. L’architetto e il designer si occupano di cose molto differenti tra loro, o almeno così può sembrare. Oggi si è quasi raggiunta una figura ibrida di creatore che passa dalla grande scala alla piccola scala e viceversa. Nel futuro si può percepire un ritorno a competenze sempre più specialistiche. In altri termini avremo a che fare con una società che tenderà a semplificare per non affrontare l’innovazione e la globalizzazione usando strumenti diversi dal passato. Poi, in ogni caso, rimarrà sempre la voglia di misurare il nostro universo con un metro composto contemporaneamente di millimetri e chilometri.

Dal polo fieristico di Milano agli Armani Stores, dalla Public Service Hall di Tbilisi al nuovo aeroporto di Shenzhen. Qual è la cifra progettuale delle vostre grandi realizzazioni?

Un’opera di architettura, quando è riuscita, è sempre un elemento di sintesi. Una sintesi culturale nel senso più lato, dando alla parola «cultura» un’accezione ampia e piena. Se pensiamo a una città contemporanea ci viene in mente un arcipela­go incontrollato di costruzioni irregolari.